Medicina Territoriale

Sviluppo dell'accorpamento (fusione) delle aziende sanitarie (AUSL e AO-U)

Recentemente la stampa locale ha diffuso la notizia che dal 1 gennaio 2023 anche a Parma l’azienda AUSL e L’azienda Ospedaliera -Universitaria diventeranno una sola azienda.  Un “gigante” da 8.000 dipendenti senza contare l’indotto.

Un’unica grandissima azienda con la sede all’interno della città che influisce profondamente sulla vita delle persone perché, pur essendo una azienda, si occupa del prendersi cura delle persone, dei loro familiari e del contesto intero entro il quale questi ammalati o persone si muovono.

E’ già capitato di presentare la teorizzazione dell’atteggiamento di cura, del curare, del prendersi cura, di chiedere aiuto, di accettare l’aiuto come un elemento caratteristico dell’essere umano. La pandemia da Covid (come tutte le epidemie storiche) ci ha costretto a riflettere sulla “essenza” del vivere (dipendenza di tutti le persone dalle cure). Veniamo tutti da un dove che non conosciamo e che non dipende da noi e lasceremo la nostra esistenza quando verrà deciso per noi (mancanza di sovranità sull’esistenza umana). Questa struttura propria ed immutabile è connaturata con la nostra esistenza.

Non sappiamo ancora che modificazioni subirà il processo di globalizzazione a fronte del lunghissimo elenco di criticità (pandemia, guerra, crisi energetica, inflazione/deflazione, manifestazioni sociali…) che insidiano il fenomeno che conosciamo come “globalizzazione” e come si ricomporrà nel tempo.

Vale la pena forse ricordare come le teorie relative alle unioni delle aziende sanitarie, come argomentazioni diffuse sulla letteratura di settore, partono addirittura negli anni ’80 negli Stati Uniti e negli anni ’90 in Inghilterra in piena florida globalizzazione. In Italia questo movimento (che ha già coinvolto numerose aziende sul territorio nazionale) di “accorpamento” parte verso la fine degli anni 90 e sta evidentemente proseguendo celermente per completare le condizioni giuridiche e normative fino ad arrivare ad una definitiva Legge Regionale.  Il mandato regionale sulla fusione aziendale ha proseguito anche durante tutte le fasi della pandemia come obiettivo delle Alte Dirigenze.  Siamo stati informati che questo processo ha coinvolto numerose figure professionali nella fase di studio e di progettazione. I professionisti e i tecnici, riuniti in gruppi di studio ad hoc, senza ombra di dubbio, avranno avuto la possibilità di analizzare il contesto attuale contemporaneo a fronte degli iniziali disegni progettuali degli anni 80’ e ’90.

Il processo di contestualizzazione probabilmente non presenta modelli stratificati o linee guida di evidenza in quanto proprio in questo ultimo periodo, dal 2020 a tutt’oggi, gli avvenimenti mondiali si sono complicati non poco e sembrano avere modificato profondamente lo stato delle cose.

Attualmente, in città, sembrano già integrati alcuni uffici tecnici-amministrativi. Dal punto di vista clinico pare che l’unico dipartimento attualmente integrato AUSL-AO/U sia il DAISMDP (Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale e Dipendenze Patologiche).  Il fatto che alcune teorizzazioni o ipotesi relative agli anni 80 o 90 trovano la loro realizzazione nel 2022 potrebbe presentare la criticità o il rischio corrano di risultare estranee al contesto e apparire superate ancora prima di nascere.

Un esempio locale del pericolo di scarsa valutazione della contingenza è stata la Deliberazione Della Giunta Comunale n. 465 del 29/12/2021 con la quale si stabiliva, anche su richiesta della Conferenza Territoriale Socio-Sanitaria, di concedere una area del parco di via Verona (detto dei Vecchi Mulini) per l’ampliamento della “Casa della Salute” (oggi Casa della Comunità) del quartiere San Leonardo per permettere all’AUSL di accedere ai fondi del PNRR e di partecipare ai bandi correlati per realizzare detti interventi.

Una    analisi     sanitaria, sociale   ed antropologica del contesto avrebbe potuto dimostrare   apertamente    l’inadeguatezza    logistica    di     questa     delibera    che    doveva prendere in  considerazione     una    struttura molto grande o hub, come si dice ora, con tutti i servizi territoriali   connessi    alle cure Primarie previsti compreso l’ospedale di comunità per essere coerente con il quartiere che dovrebbe servire.

Non resta   che   augurarsi che la nuova Amministrazione Comunale in accordo con l’Azienda Sanitaria   o    Socio-Sanitaria “Unica” possano   rivedere   in modo radicale i contenuti della delibera stessa. Potrebbe    essere    l’occasione per poter sperimentare effettivamente un Welfare di   Comunità   come   proposto da anni dalle Associazioni di Volontariato di questo territorio ed in particolare della Comunità Solidale Parma che da molti anni ha sviluppato un disegno progettuale di Casa della Salute/Comunità coerente con i bisogni sanitari e sociali del quartiere. Una esperienza che potrebbe diventare pilota o di riferimento anche per le future decisioni sanitarie che numerosi sindaci della nostra provincia potrebbero dover affrontare (vedi Guida alla Casa della Salute/Comunità, Lennesima Editore 2022, info@lenservice.it,).

Le principali motivazioni (presenti in letteratura) che spingono in favore dei processi di fusione aziendale sono di tipo politico ed economico. Occorre tenere sempre presente che questi approfondimenti si riferiscono ad un momento precedente alla situazione di crisi e smarrimento di questo periodo. Dal punto di vista strettamente economico si possono raggiungere economie che gli esperti chiamano “di scala” e di “scopo”. I servizi forniti potrebbero annullare duplicazioni. La competenza clinica e professionale potrebbe riceverne dei benefici in quanto un aumento dei volumi dei “casi” può influire sull’efficacia e sull’efficienza di un servizio e dei suoi professionisti (formazione, pubblicazioni, carriera, attrattività, fidelizzazione).

Politicamente l’idea dell’accorpamento e dell’incremento dell’eccellenza prestazionale ha semplificato le procedure delle strutture più piccole (quanto ci sono mancate nel periodo Covid!) e forse incrementare il potere contrattuale dell’Azienda unificata nei confronti dell’Assessorato Regionale.  L’organizzazione composta da più risorse umane e materiali può essere sistemata al fine di far fronte a sfide anche inattese perché si pensa che l’Azienda Unica possa “sempre” fornire servizi di maggiore qualità. È comunque ben manifesto che questa prerogativa di miglioria non possa fare a meno del privato accreditato.

Gli studi che hanno tentato di analizzare le evidenze degli accorpamenti hanno affrontato (in periodo pre-covid) le aree degli esiti clinici, dei processi, della performance finanziaria/produttività).

Non sono emerse differenze macroscopiche su alcuni parametri clinici (indici di mortalità ospedaliera; dimissione entro le 48 ore dei nuovi nati; esiti infausti post infarto a 30 giorni).  Criticità aumentate riguardano l’aumento della mortalità a 30 giorni per ictus; riammissioni a28 giorni per ictus, a 90 giorni per infarto.

Il processo relativo ai tempi di attesa ha mostrato un tempo superiore a 180 giorni come media. Sono inoltre aumentate le spese del personale e tempo determinato e del management. Diminuisce significativamente invece il totale dei ricoveri, il personale, i posti letto. Si riduce anche la spesa totale senza modificare la produttività.

L’area delle relazioni tra popolazione e cure primarie (efficacia clinica, efficacia preventiva, gradimento dei pazienti, accessibilità, performance finanziaria, coinvolgimento dei dipendenti) non ha evidenziato nessun risultato statisticamente significativo tra strutture accorpate e non accorpate.  In relazione alla popolazione di riferimento solo due indicatori sui 23 indagati hanno mostrato una maggiore probabilità di innovazioni nei servizi di assistenza primaria e di assistenza intermedia (oggi si indicherebbero come hospice, letti osservazionali, Ospedali di Comunità).

C’è un’area indagata che mette in relazione documenti ufficiali pubblicamente accessibili e possibili motivazioni non palesemente dichiarate.  Le comunicazioni pubbliche sostengono di voler investire in attività specialistiche, garantire lo sviluppo dei servizi e la qualità, migliorare le condizioni e le carriere del personale, influire in modo fortemente positivo sulle cure primarie. Le ragioni non pubblicamente esplicitate riguardano la creazione di nuovi ruoli gerarchici, la particolare attenzione all’economicismo, la risposta alle così dette “lobby di stakeholder” cioè un coinvolgimento sempre più benefico con il privato accreditato o con i professionisti “in affitto” (Programma Rai REPORT del 20 giugno 2022).

L’ultima area osservata è stata quella relativa alla percezione e soddisfazione del personale. Da una parte  si  rileva  un apparente aumento dell’autonomia  dei professionisti che possono intervenire nei processi decisionali di innovazione e cambiamento ma  si percepisce anche un peggioramento nell’erogazione  dei servizi a danno dei pazienti; differenziazioni se non discriminazioni nella cultura organizzativa  tra i vari team o gruppi; una perdita di controllo  sulle direzioni strategiche  o su attività quotidiane con accumulo di ritardi  a causa della distanza che si viene a creare tra  professionisti e management; stress dovuto ai cambiamenti, incertezze, aumento del carico di lavoro, percezione di essere stato “acquisito” all’interno di una organizzazione preesistente e più forte.

Conclusioni.

Non vi sono ancora evidenze solide sulle fusioni aziendali e nello stesso tempo i dati contrastanti sottolineano come non possa esistere un automatismo tra l’aumento delle dimensioni di una maxi azienda e i miglioramenti nelle performance o nelle economie e quindi l’accorpamento non è una condizione necessaria e sufficiente per costruire super aziende.

Oltre alle fusioni possono esserci modelli alternativi?

Sembrerebbero esserci ma occorrerebbe oggettivamente sperimentarli attraverso una precisa conoscenza di questi stessi modelli che passano attraverso processi decisionali territoriali fortemente autonomi e che considerano tutto il processo decisionale innovativo a carico della comunità: ideazione, progettazione, realizzazione, sperimentazione, stabilizzazione, rendicontazione. In pratica un Welfare di Comunità non calato dall’alto ma adattato a misura di ogni singola… comunità.  Forse al posto di accorpamenti o fusioni (che potrebbero anche starci a livello tecnico-amministrativo) sarebbero più attuali federazioni di tante piccole realtà autonome, sufficienti e necessarie per creare reti funzionali e operative di assistenza (entro una AFT con un referente che collabora con tutte le professionalità) co-operanti per un prendersi cura di alta qualità, portatrice di una continuità che riduce la frammentazione e favorisce, per forza di area geografica, la prossimità. Un team di questo tipo può sviluppare una programmazione   assistenziale individualizzata sia nell’ambulatorio che al domicilio. Può co-operare con personale e professionisti appartenenti a organizzazione o a forme contrattuali diverse (che possono anche operare in uno stesso spazio fisico per ottimizzare la propria offerta assistenziale sia per i deambulanti che per la domiciliarità). Il gruppo o il team può innovare e progettare molti percorsi assistenziali integrati (eventualmente coinvolgendo anche il privato accreditato…)  e sviluppa una cultura ed una identità multiprofessionale e multidisciplinare.

Con il modello del Welfare di Comunità la dimensione organizzativa (es.: sul territorio 20-25 mmg per un bacino di utenza di circa 35.000-45.000 mila persone cioè un quartiere grande) non crea distanze tra vertice strategico e linee operative e non richiede ulteriori ruoli gerarchici.

Il tempo, che come si sa è galantuomo, permetterà di valutare gli accorpamenti e le fusioni saranno riforme o controriforme.  Prima di ogni altro passaggio sarebbe però necessario   un accorpamento o meglio promuovere una condivisione culturale (oltre che tecnico- amministrativo) che consenta una crescita tangibile di fiducia e rispetto reciproco tra alte dirigenze e professionisti/operatori al fine di comprendere e agevolare le visioni derivanti da maggiori e diverse complessità.

(vedi video https://lenservice-my.sharepoint.com/:v:/g/personal/christopher_gruppolen_it/Ecks-tPbf1tDpZ30hnFEWLQBYCpqfgahJXO_A9ZBQD1H7A?e=6HJndH)

 

Bruno Agnetti
Medico


MMG

Il Dm 71 e il pensiero “pre logico”

di Ivan Cavicchi

Ovvero come credere di cambiare l’assistenza territoriale semplicemente facendo la festa ai MMG. E come credere che basta obbligare i MMG a lavorare nelle case di comunità per far funzionare le case di comunità

13 GIU -

Nel mio ultimo articolo (QS 6 giugno 2022)  ho sostenuto sostanzialmente la seguente  tesi “politica”: la burocrazia regionale quella più  aggressiva (Mantoan) sta usando la politica,  quella più sprovveduta (Speranza), per ridimensionare il ruolo del  MMG con lo scopo di contro-riformare l’assistenza territoriale  (Dm 71).

Le intenzioni di questo articolo
In questo terzo articolo vorrei completare l’analisi politica dimostrando che il “medico dimezzato”,  non è la proposta della solita stupida tecnocrazia sanitaria, come potrebbe sembrare, ma al contrario è una proposta ben soppesata che rientra in un disegno  più ampio del quale non mi pare si abbia coscienza.

Dopo di che vorrei  tentare  di comprendere meglio il pensiero del “contro-riformatore” di turno al servizio di una certa ideologia politica.

Infine vorrei discutere le contraddizioni che oggi vive il sindacato maggioritario che rappresenta i MMG quindi la Fimmg  perché non c’è alcun dubbio sul fatto che se la Fimmg non fosse in difficoltà l’ipotesi di una controriforma non avrebbe nessun spazio politico.

La strana dipendenza

La proposta del “medico dimezzato” a ben guardarla  alla fine non è null’altro che una forma neanche tanto dissimulata di deregulation. Essa propone un genere di dipendenza  insolita e anomala:  i MMG anche se non sono giuridicamente dipendenti pubblici  diventano dipendenti  pubblici  perché indipendentemente dalla loro convenzione essi lavorano  presso certi servizi pubblici.

Il nuovo principio è l’uso che si fa del medico che decide la sua operatività ma non lo status professionale. Il che vuol dire  che se le Regioni  usano il medico per battere ad esempio il marciapiede allora il medico per le Regioni  è, indipendentemente dal suo status professionale, giuridicamente una “battona”.

Per Mantoan, noto giuslavorista veneto di fama internazionale, è sufficiente che  un mmg  lavori in una casa di comunità per essere de facto dipendente pubblico.

Qui il “principio del contesto” di cui parlavo nel mio articolo precedente diventa addirittura un inderogabile  principio giuridico quindi una specie di “ius cogens”.

Deregulation
Il “medico dimezzato” ribadisco non è altro che la conseguenza di un atto di deregulation di matrice regionale che intende cambiare i vincoli legislativi e amministrativi centrali che fino ad ora hanno regolato la convenzione.

Quindi contro-riformare l’art. 48 della 833 “Personale  a rapporto convenzionale.”

Il Dm 71 rientra così in un progetto di controriforma più ampio  e che si chiama “regionalismo differenziato” - e che  ricordo è stato oggetto recentemente di una deliberazione dalla Corte dei Conti (Deliberazione n°4 del 29 marzo 2022) - che teorizza la più ampia autonomia delle regioni in tema di convenzioni e di contratti ma anche in tema di professioni e persino di formazione.

Vorrei  ricordarvi che la regione Veneto è la regione capo-fila sulla competenze avanzate  (QS 24 febbraio 2020) e che la regione Lombardia ha in animo di sperimentare una non meglio precisata "supplenza organizzativa" degli inferieri nei confornti del MMG (Qs  9 giugno 2022)

Per chi  non l’ avesse capito quindi il DM 71 è prima di tutto il tentativo surrettizio di modificare l’attuale assetto normativo che regola  in materia  di MMG gli equilibri di potere tra le norme centrali e le autonomie regionali. Non mi sembra una inezia.

Il pensiero pre logico di Mantoan
Il pensiero pre logico per alcuni  è il “pensiero primitivo”, per altri  è il “pensiero magico” del bambino. Per Mantoan innegabilmente è un pensiero  superstizioso cioè un pensiero che crede di cambiare l’assistenza territoriale semplicemente facendo la festa ai MMG.

Dire che basta obbligare i MMG a lavorare nelle case di comunità per far funzionare le case di comunità è un altro pensiero pre logico.

Supporre, come bene ha scritto Oppes (QS 8 giugno 2022) di poter garantire la prossimità, semplicemente attraverso i servizi  è un altro esempio di pensiero pre logico.

E’ ancora pre-logico credere che basti pronunciare le parole magiche per far accadere le cose: hub spoke, one health, rete, integrazione, multi-disciplinarietà, ecc.

Pensare come Moratti che i MMG siano surrogabili con gli infermieri non è un pensiero pre logico ma una autentica c…a.

Contraddizioni
Il pensiero pre logico di Mantoan, quindi del  DM 71, va respinto semplicemente perché è un pensiero superstizioso quindi per definizione irrazionale. La superstizione è del tutto inadeguata a risolvere  i problemi gravi della sanità.

Sarebbe come curare l’anemia verniciando di rosso il malato.

Ma chi è il soggetto politico che in sanità dovrebbe fare muro contro la superstizione? Il guaio più grosso è che chi dovrebbe respingere  il pensiero pre logico, per ruolo e funzione,  è  il sindacato  che rappresenta i MMG che  però si trova, a quanto pare, coinvolto  un po’ troppo nella  controriforma che lo vuole ridimensionare.

A scanso di equivoci vorrei dire che ho apprezzato molto l’articolo di Pier Luigi Bartoletti  Vicesegretario vicario della Fimmg  (QS 10  giugno 2022) un articolo al quale considerando il contesto di incertezze con il quale abbiamo a che fare  attribuisco una rilevante importanza politica.

Ma nello stesso tempo credo che la Fimmg debba avere il coraggio di rimuovere certe contraddizioni che nei confronti del DM 71  rischiano di farla passare come corresponsabile.

Si tratta riprendendo un argomento del mio primo articolo sul “democristianamente” (QS 30 maggio 2022) da una parte di essere meno democristiani e dall’altra di essere più democristiani dei democristiani.

Se la barca affonda perché affondare con la barca? In altre parole se il consociativismo non paga più perché insistere con il consociativismo?

La contraddizione della Fimmg, a mio avviso, è che nonostante tutto essa ritiene che la soluzione di salvare la convenzione  dando in cambio il medico dimezzato sia per i MMG comunque conveniente. E se anche questo risultasse alla fine un pensiero pre logico?

O peggio una superstizione?

Il conflitto della Fimmg
Effettivamente oggi di fatto la Fimmg, (non credo giusto dire “suo malgrado”), si trova coinvolta grazie al suo ben noto consociativismo in un pericoloso disegno contro riformatore e  in pieno conflitto con i suoi scopi statutari.

Ma è così? Ebbene a leggere il suo statuto, (aggiornato  solo  3 anni fa in occasione del 76° congresso ottobre 2019) il suo compromesso con regioni e governo, in realtà non sarebbe per nulla ingiustificato.

Nell’art. 3 lo statuto  parla  ovviamente di  tutela degli interessi professionali dei propri iscritti (punto A)ma precisando  subito dopo (punto B) che la tutela va garantita attraverso “la stipula di convenzioni, accordi o contratti con il SSN (omissis)”.

Cioè tre anni fa la Fimmg ha deciso di mettere  la forma  contrattuale della convenzione come vincolo statutario. Una scelta  secondo me tutt’altro che  casuale e solo apparentemente pleonastica e che  ci dà l’idea della sua preoccupazione crescente  circa il rischio sempre più forte  di perdere, per cause diverse, la convenzione. Evidentemente  la convenzione in sé è intesa come la massima espressione del principio del tornaconto  di cui parlavo nel mio articolo precedente. Quindi come un baluardo da difendere con le unghie e con i denti.

Un principio, attenzione,  quello del tornaconto, che non va ridotto al “compenso retributivo” ma che va allargato allo status professionale che, il rapporto libero professionale, comporta.

La convenzione a ben riflettere altro non che una sineddoche di libera professione. Il punto vero è la libera professione. La Fimmg è evidente che difende la convenzione per difendere lo status.

E che succede, come nel caso del medico dimezzato e del Dm 71, se la convenzione non garantisce più lo status?

Il senso della storia
Questo status, ricordo ai pre-logisti veneti e lombardi, nasce fin dalle origini della medicina, come libero, autonomo e indipendente, lo stesso status descritto e sancito nel giuramento attribuito ad  Ippocrate.

Il primo medico vero della storia della medicina non è prelogico ma al contrario nasce dal superamento della pre logica. Lasciando da parte  i paroloni, vorrei spiegare a Mantoan, quindi a coloro che intendono ridurre i MMG a “ struscia bidoni”, (QS 30 maggio 2022) che una riduzione del genere significa  cancellare un certo modo di intendere la medicina cioè cancellare l’unico modo di essere medico che conviene  al malato.

Perché è evidente che al malato lo “struscia bidoni” non conviene.

Alla fine  di un lungo viaggio dentro i problemi della medicina e della sanità,  e culminato nel mio ultimo libro “La scienza impareggiabile”,  la mia conclusione, è molto semplice: per reggere il confronto con le complessità del nostro tempo non ci vuole un “medico minore” e meno che mai un suo surrogato, o peggio un “medico dimezzato”, come vuole la pre logica, quindi meno autonomo e meno libero, e meno indipendente  ma, al contrario come vuole la logica ci vuole un “medico maggiore”  più autonomo più libero e più indipendente. Insurrogabile e impareggiabile.

Il “medico impareggiabile” che ci servirebbe, come è scritto chiaramente nelle 100 tesi della Fnomceo, oggi ancora non c’è. Quello che c’è è alla fine un vecchio medico spompato che non vede l’ora di andare in pensione perché ha le palle piene di tutto.  concepito rispetto ad un mondo che ormai non c’è più. Questo medico però possiamo ricostruirlo. La Fimmg  da quello che ho visto sul campo non crede un granché alla possibilità di ridefinire il medico, essa continua a ritenere che a medico invariante basterebbe rinnovare la convenzione. Ebbene io penso che questo sia un ragionamento miope.

Dilemmi
Quando tre anni fa la Fimmg ridefinì il suo statuto non poteva immaginare che subito dopo  sarebbe arrivata una pandemia e meno che mai che  le regioni  con la scusa della pandemia, avrebbero tentato di de-regolare cioè di mettere in discussione la libera professione.

Oggi la Fimmg dopo la pandemia ha perduto molto del suo potere negoziale e del suo potere rappresentativo, anche perché di segnali sbagliati durante la pandemia ne ha mandati molti, sciupando quella che per lei poteva essere una grande occasione per rifarsi la virginità.

Però siccome conosco la Fimmg e non posso dimenticarmi  che i suoi valori di riferimento alla  occorrenza possono diventare anche molto flessibili (QS 9 ottobre 2014), penso che la difesa della convenzione oggi da parte sua non sia una questione di principio e quindi un problema statutario, ma al contrario sia, almeno per me, un calcolo di convenienza sbagliato.

Cioè la critica che io faccio alla Fimmg è che oggi la difesa a priori della convenzione con il Dm 71 si configura non come una lesione al principio ma una lesione al tornaconto.

Per me oggi:

  • la Fimmg semplicemente sta facendo male i suoi conti,
  • la vera questione politica circa i MMG, è  lo status giuridico del medico, non la difesa tout court di una convenzione,
  • la classica convenzione oggi è oggettivamente  indifendibile,
  • la convenzione, volendo si può ripensare in mille modi diversi.

Il punto politico resta un altro: se il MMG continuerà a fare il “medico minore”  cioè  il “passa carta” egli, come pensa la pre logica,  sarà surrogabile ma se  il MMG deciderà di fare il “medico maggiore” egli sarà con buona pace di Moratti e Mantoan, più che mai insurrogabile.

Conclusione
Se il Dm 71 lo consideriamo un sillogismo e se la conclusione logica di questo sillogismo  è un medico “minore” o “surrogabile” o  “dimezzato” mentre questa società  avrebbe bisogno esattamente del contrario, allora il sillogismo è una fregatura.

Il punto debole, se non drammatico, è che la Fimmg, ma direi anche tutti gli altri sindacati, oggi non hanno un sillogismo alternativo a portata di mano. Per cui si rischia di restare “ingavinati” nel pensiero pre logico.  C’è quindi solo una strada  sensata  da percorrere: costruire  il nuovo sillogismo che ci serve e alla svelta.

Nel frattempo secondo me la Fimmg dovrebbe:

  • sfilarsi pubblicamente da un accordo politico verso il quale essa per prima ha tutto da perdere e nulla da guadagnare,
  • lasciare a Speranza la responsabilità storica  dello sfascio dal momento che lo sfascio è più vicino che mai.

Ivan Cavicchi

Ps: Vorrei ringraziare pubblicamente  G. Campo, A. Chiari, A. D’Ercole, B. Bersellini, B. Agnetti  del Centro Studi Programmazione Sanitaria  FISMU, per il loro bell’articolo e per il loro prezioso impegno sul campo (Per la sanità territoriale è arrivato il momento del redde rationem. Qs 7 giugno 2022).

Quello che  hanno scritto ma soprattutto la loro stima  mi ha ripagato di non poche   incomprensioni che vi assicuro  per chi come me si occupa di “medici” e di “medicina” purtroppo sono  tutt’altro che infrequenti.

Ma va bene così. Nonostante “certi medici” continuo a credere che  la prima vera garanzia per un malato sia un bravo medico.

13 giugno 2022
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case della salute

Casa della Salute/Casa della Comunità: una guida ad hoc

 

casadellasalute

Un piccolo vademecum redatto da Bruno Agnetti medico di medicina generale, Parma, sulle strutture organizzative prossime venture su cui vertono ancora numerose incertezze e perplessità. Un racconto, ovvero la narrazione delle vicende che partono dall'ACN 2005 ed arrivano fino ai nostri giorni strettamente confinati al campo dell'organizzazione e delle relazioni tra Mg e istituzioni.

Come organizzare una Casa della Salute/Casa della Comunità senza massacrarsi la vita". Questo è il sottotitolo 'esaustivo' della "Guida alla Casa della Salute/Casa della Comunità da Pnrr 2021" redatto dal medico di medicina generale Bruno Agnetti di Parma e membro del Centro Studi Programmazione Sanitaria della Fismu dell'Emilia-Romagna.

Un vademecum sulle strutture organizzative che si potrebbe collocare alla fine della cascata epistemologica (paradigma, dottrina, disciplina) ispirandosi ad autorevoli

Autori tra cui il Prof. Ivan Cavicchi e alle sue argomentazioni sui problemi sanitari. Forse proprio all'interno dell'apprendimento applicato (disciplina) può essere inserito l'aspetto organizzativo dell'ambito medico-sanitario che oggi vede come "tendenza del momento"la questione delle Case di Comunità con le sue numerose incertezze, contraddizioni, affermazioni, ripensamenti, dilazioni e quant'altro.

Il Centro Studi di Programmazione Sanitaria della Fismu-Emilia Romagna ha raccolto un sintetico insieme di dati, esperienze e relazioni inerenti i temi delle aggregazioni monoprofessionali, pluriprofessionali e multisettoriali territoriali. 

Si tratta in pratica di un racconto, della narrazione, delle vicende che partono dal ACN 2005 ed arrivano fino ai nostri giorni strettamente confinati al campo dell'organizzazione e delle relazioni Mmg/istituzioni. Tutta l'esposizione contenuta nella "Guida" è un resoconto dell'abitudine quotidiana "dello zappare la vigna" che è data ai Mmg (fino ad oggi). 

L'argomento non viene sviscerato nella sua complessità, ma presenta, volutamente, qualche suggerimento schematico per chi si dovesse trovare ad intraprendere una simile avventura all'interno della ridda di documenti, a volte contrastanti, che intendono disegnare il futuro dell'assistenza socio-sanitaria territoriale. Raccontare la storia di alcuni colleghi che hanno operato in Emilia Romagna, in un arco temporale che copre circa 20-30 anni, può essere una modalità per conoscere l'ambiente lavorativo del medico di medicina generale che oggi si trova di fronte alla necessità (per la sua sopravvivenza) di affrontare un enorme trasformazione ontologica per riconquistare una propria impareggiabilità istituzionale considerato che il gradimento nei suoi confronti da parte dei cittadini rimane sempre molto alto.

 

Come procurarsi la 'Guida'

La casa editrice "Lennesima" provvede alla distribuzione on line del testo cartaceo o della versione in PDF anche al di fuori dell'Emilia Romagna, con il sistema "Trainingweb" https://www.trainingweb.it/product/libro-cartaceo/

ed è contattabile al seguente indirizzo: LEN Golfo dei Poeti, 1/A, 43126 Parma; Tel.: 0521 028 455.


DM71: sarà vera riforma?

DM71: sarà vera riforma?

di G.Campo, A.D’Ercole, A.Chiari, B.Bersellini, B.Agnetti

26 APR -

Gentile Direttore,

premessa impone di porre il testo del caro Prof. Cavicchi “La scienza Impareggiabile”, senza discussioni, caposaldo di ogni argomentazione che voglia affrontare ontologicamente la questione medica. Poi c’è la quotidianità (un recente esempio tra gli innumerevoli possibili è dato dall’articolo del collega Enzo Bozza: Ancora i peones?, arguto e tuttavia affranto). E’ la consuetudine di trascinare le “scarpe grosse” nei meandri limacciosi ed indecifrabili delle Aziende USL. Questi presidi “prefettizi” degli assessorati regionali, producono, ogni giorno, incremento dei compiti, piccole e apparentemente trascurabili disuguaglianze, differenziazioni assistenziali e professionali. Quando si addizionano gli avvenimenti apparentemente irrilevanti, azienda per azienda, la somma delinea una vera e propria calamità. Il paradosso è che comunque sono disparità operative assolutamente legali perché ogni azienda ed ogni assessorato bada molto bene a proteggersi con delibere e circolari votate a maggioranza schiacciante. Alcune aziende hanno attivato negli anni progetti assistenziali finanziati, formalmente ineccepibili ma inopportuni dal punto di vista politico sanitario, che hanno coinvolto un numero di colleghi rappresentati da meno delle 5 dita di una mano.  Altre aziende hanno dimostrato di non avere contezza dei diversi contratti stipulati negli anni, (variabili significative dal punto di vista economico), con le varie aggregazioni di mmg (es.: Case della Salute ora Case delle Comunità… ma quest’ultime non ancora entrate in produzione).

“Cosa è successo? Niente” racconta Jannacci nella canzone “il bonzo”.

Evidentemente è velleitario ipotizzare l’abolizione delle Ausl con un ritorno alle Usl e affidare a queste istituzioni compresi gli assessorati alla sanità (80% circa del bilancio di ogni regione) solo ruoli di garanzia e di salvaguardia dell’universalismo. Insieme dovrebbero essere cancellate tutte quelle occasioni sospette per pratiche consociativistiche che hanno alla fine sfigurato la professione. Occorrerebbe ritornare a riconoscere massimo valore alla meritorietà virtuosa abbandonando la tradizionale meritocrazia spesso autoreferenziale. Già solo questo rappresenterebbe una riforma minima ma indispensabile. Così come può essere considerata una parte di questa innovazione vitale il fatto che i colleghi medici e sanitari che desiderassero entrare a far parte di una aggregazione territoriale organizzata in team condividano preventivamente e in autonomia processi e progetti.

In caso contrario l’inevitabile sfacelo a cui forse assistiamo esige urgentemente una “quarta riforma” ma forse anche una quinta o una sesta e “po se sa no” direbbero a Milano. Sbalorditiva la recente accelerazione del Governo che ha dato il via libera al cosiddetto DM 71 pur senza l’intesa con le Regioni. Peccato che il nuovo Decreto trascinerà con sé tutte le contraddizioni che da anni porta i professionisti ad appellarsi ad una riforma che sia tale.

Ad esempio: una riforma reale dovrebbe sancire autonomia dal sistema  regionale e dalle AUSL;  riconoscere un trattamento  economico  adeguato; programmare una pianta organica corrispondente alla riduzione dei posti letto ospedalieri e alle sempre più precoci dimissioni;  ricercare una responsabilizzazione di impresa convenzionata con il SSN; garantire la libertà di aggregazione tra professionisti motivati;  offrire le tutele; garantire  libera scelta e rapporti fiduciari; abolire gli ambiti territoriali; inserire l’istituto dell’affiancamento paritario;  esortare le aggregazioni e i singoli, eventualmente collegati funzionalmente,   ad una sana concorrenza virtuosa nella sfera della qualità assistenziale in co-operazione con tutti gli attori  del territorio; dare un senso concreto alle Case della Salute (se diventeranno Case della Comunità) e offrire una logica a quelle strutture  che vengono definite “Ospedali di Comunità” che rischiano per davvero  di diventare un clamoroso ossimoro realizzativo in quanto l’OSCO, da quanto si legge, potrebbe non essere logisticamente posto all’interno del perimetro della comunità di riferimento.

Il paradosso sommo della questione DM71 sta poi nel fatto che il recente ACN, già a suo tempo firmato dalle OOSS, non è ancora stato pubblicato sulla GU così che ci si trova nella situazione incredibile di avere una normativa o un documento applicativo (DM) senza il testo ufficiale di riferimento (ACN).

La qualità assistenziale delle nostre comunità, sempre più complesse, richiede beni comuni accessibili universalmente “non rivali e non escludibili” senza l’inarrestabile incremento burocratico di ulteriori compiti. Le piccole comunità sono terreno fertile per possibili sperimentazioni riformatrici.  L’atteggiamento di certe istituzioni sovraordinate alle persone e ai professionisti richiama apertamente il concetto, (se consideriamo anche gli enti pubblici delle unità), dell’individualismo se non quello del singolarismo. Quando la gestione viene orientata da questi atteggiamenti si assiste ad una riduzione dei beni comuni fruibili (V. Pelligra, il Sole24Ore, 24 aprile 2022) e dello spirito di co-operazione con esiti sociali pessimi perché i beni pubblici/comuni vengono distrutti.

Così in una improbabile riforma che avversasse gli attuali decisori (Assessorati e Aziende) dovrebbe progettare da capo istituzioni e organizzazioni più rispettose e fiduciose dei professionisti e degli attori di tutte le assistenze primarie di per sé già in grado, da sole, di creare opportunità di co-operazione ed interazioni non gerarchiche tali da produrre ed arricchire il bene pubblico.

Anche una adeguata rivisitazione e relativa semplificazione della remunerazione è auspicabile prendendo atto che il “vecchio” sistema incentivante confuso e generatore di gravi differenziazioni, non più accettabili, ha completamente dimenticato che oltre agli incentivi economici relativi agli obiettivi regionali e aziendali esistono anche le incentivazioni immateriali fortemente originate dall’autonomia organizzativa e gestionale (equità, qualità, trasparenza, trasmissibilità, consenso, gradimento, apprendimento, complessità ecc.).

Se nel recente intervento del Presidente Nazionale della FNOMCeO è stato evidenziato come sia allarmante la volontà di molti colleghi di lasciare al più presto la professione, (in particolare nella medicina generale territoriale), è possibile che queste convinzioni siano avvalorate da una o due giustificazioni e, secondo quanto già elencato, alcune di quelle motivazioni che spingono i professionisti alla resa potrebbero superare di molto le problematiche (pur allarmanti) economiche.

Giuseppe Campo, Alessandro D’Ercole, Alessandro Chiari, Bruno Bersellini, Bruno Agnetti

CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)

FISMU (Federazione Italiana Sindacato Medici Uniti), Regione Emilia-Romagna

26 aprile 2022
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Medicina Territoriale

Lettere al direttore: Medicina territoriale. Il Re è nudo.

Gentile Direttore, 

il decreto ministeriale DM71 ha “finalmente” svelato quale potrebbe essere lo sviluppo dell’assistenza territoriale una volta che lo stesso documento venisse approvato dalla Conferenza Stato-Regioni ed inparticolare dal Comitato di Settore. La ridda di documenti, atti di indirizzo, commenti ed argomentazioni (la montagna) alla fine è riuscita a partorire il topolino “prematuramente”. La fretta e la mancanza di riflessione approfondita sull’assistenza territoriale e sull’infinita letteratura in merito apparsa in questi anni autorizza a constatare ciò che è stato affermato infinite volte da numerosi commentatori ed esperti: è possibile non solo che ci sia il rischio di non trovare nulla sotto le apparenze ma che il re sia effettivamente e completamente nudo. Non si può pensare ad una riforma se la produzione delle norme “fondamentali” ripropongono (triste constatazione) la possibilità di spendere quel che resta del PNRR su definizioni accidentali, sigle organizzative improbabili foriere di sicuri fallimenti nel brevissimo tempo. Una controriforma non può essere esibita come riforma: superato per il momento la stagione del tormentone dipendenza/libero professionismo entriamo nell’epoca del neo-confusionismo. La retorica pluridecennale della “centralità del paziente” si è manifestata essere sostanzialmente una autodifesa autoreferenziale di regioni e Ausl. L’epicentro dell’assistito può essere assicurato solo da un rilevante ruolo dei professionisti delle cure primarie territoriali in quanto, professionisti e pazienti, hanno forti interessi comuni. 

  Distretto. È un perno debolissimo dell’hub and spoke, contradditorio, a volte inesistente dal punto di vista professionale e assistenziale. Durante la pandemia questi istituti sono stati addirittura chiusi per più di due anni e nessuno se ne è accorto. Ma il DM71 vuole ancora riproporre una minestra riscaldata. L’efficienza e l’efficacia della presa in carico della popolazione di riferimento è strettamente connessa con una autonomia decisionale professionale. Il distretto o l’Ausl dovrebbero essere a servizio e a sostegno di questa autonomia nell’intero processo decisionale ed è per questo che le Ausl dovrebbero ritornare ad essere Usl così come i distretti uffici di supporto ai professionisti. 

 Case della Comunità. Questo capitolo riabilita, dopo tanti anni, il Decreto Balduzzi (mai abrogato) e nello stesso tempo ne modifica i numeri definiti a suo tempo per le UCCP e le AFT. Clamorosa la destrezza con cui viene realizzato il sistema hub and spoke. È una storia già vissuta nella sua diversificazione assistenziale e professionale che alcuni colleghi definiscono palese discriminazione (medici e assistiti di serie A e di serie B): qualche hub degno di questo nome per pochi e gli spoke costituiti da ciò che già c’è cioè dagli ambulatori dei mmg singoli o in gruppo sparsi sul territorio. Piace vincere facile mettendo a profitto gli investimenti culturali, professionali, strutturali, auto-formativi realizzati, in tutti questi anni, dai professionisti. Per molti aspetti non vi sono differenze sostanziali tra Case della Comunità e Case della Salute vere e grandi dove numerosi mmg e co-operazioni multiprofessionali, multidiscilinari e multissettoriali possano effettivamente progettare innovazioni per quel dato territorio. Vengono infatti mantenuti fermi tutti gli elementi di differenziazione professionale e assistenziale. 

 Assistenza Domiciliare. Non può essere una attività a determinazione distrettuale ma a servizio degli attori del territorio che hanno l’autorevolezza professionale, in co-operazione, di attivare ogni tipo di ADI. 

 Infermiere di Famiglia e Comunità. Già sperimentato da anni nei così detti Nuclei di Cure Primarie (NCP) perfettamente sovrapponibili alle AFT. Infatti nei NCP vi sono gli infermieri di NCP. 

 Unità di Continuità Assistenziale. La pandemia ha tentato di far comprendere alle aziende la necessità di costituire questo servizio (su decreto legge) senza però che vi sia stato quell’apprendimento necessario che rende gli USCA un presidio qualificato e attivato dal mmg con cui devono restare in contatto diretto (libera scelta fiduciaria e gestione della privacy individuale e domiciliare). 

 Centro Operativo Territoriale. Dovrebbero coordinare i servizi del distretto, che per sua inconsistenza potremmo definire “virtuale” e prevede anche un accesso diretto telefonico da parte degli assistiti (per esigenze a bassa intensità assistenziale, assistenza domiciliare ed eventuale servizi di telemedicina). Al momento è il mmg che eventualmente attiva una assistenza domiciliare e che valuta l’intensità dei bisogni e chiede, se necessaria, la collaborazione di altri sanitari. Se invece il COT resta un coordinamento dell’emergenza urgenza in questo dovrà poter usufruire di una struttura informatizzata che permetta agli attori dell’assistenza territoriale dell’emergenza urgenza una informativa essenziale ed un aggiornamento in tempo reale su device portatili (cartella informatizzata). 

 Ospedali di Comunità. Il loro senso è quello di essere appunto nelle comunità (AFT/quartieri) e di svolgere una funzione dove il processo decisionale sia completamente predisposto in capo agli attori sanitari, sociali e plurisettoriali della comunità stessa. Inserire il concetto del post ricovero rischia di sottrarre dalla facoltà decisionale ai sanitari territoriali ed espone l’organizzazione assistenziale territoriale al fenomeno di vedere servizi di competenza (es.: gli hospice) diventare praticamente estensione dei reparti ospedalieri creando a livello territoriale le orribili liste d’attesa. 

 La rete delle cure palliative. Di norma, a livello territoriale sono, i professionisti sanitari ad osservare le evoluzioni dei loro pazienti ed in particolare è il mmg che deve attivare una assistenza ADI di 3° livello o palliativa. Il mmg dovrebbe rappresentare il 1° palliativista di riferimento per il proprio paziente soprattutto al domicilio ma anche nella Casa della Comunità/Hospice. Ciò non toglie, come in tante altre situazioni, che il medico di medicina generale possa richiedere una consulenza specialistica diretta o telefonica su alcuni aspetti operativi particolari. 

  

Pubblicato da Quotidiano online di informazione sanitaria 

Alessandro Chiari e Giuseppe Campo 

CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria) FISMU (Federazione Italiana Sindacato Medici Uniti), 

Regione Emilia-Romagna_ 

 


Medicina Territoriale

Le case della comunità nei quartieri, una scelta in ritardo di anni

22 FEB - Gentile Direttore,

Sul filo di lana del traguardo della consiliatura posso manifestare una malcelata soddisfazione per il fatto che almeno è emersa "ufficialmente" una qualche "sensibilità" su temi direttamente coinvolti all’assistenza sanitaria territoriale avvenuta con la presentazione della delibera della Giunta comunale nella quale si esprime parere favorevole sul sistema strutturale delle così dette Case della Salute (oggi più propriamente definite Case della Comunità) di via XXIV Maggio (quartiere Lubiana) e di via Verona (quartiere San Leonardo).

Null’altro che una "sensibilità" forse nemmeno genuina ma dettata dalla necessità di presentare qualche progetto al fine di racimolare in fretta e furia quel che resterà del Pnrr.

Attualmente le due denominazioni (Case della Salute/Case della Comunità) possono essere considerate concettualmente sovrapponibili come funzioni e obiettivi professionali e assistenziali anche se è probabile che nei prossimi anni possano essere declinate operatività e integrazioni diversificate in relazione agli sviluppi culturali e normativi in atto (Pnrr, contratti nazionali, accordi regionali e locali, approfondimenti e interpretazioni pubblicati da numerosi commentatori nazionali e locali).

Credo a questo punto di poter dare un significato parzialmente positivo al mio mandato amministrativo, considerato che l’obiettivo principale , quello di portare all’interno dell’Amministrazione comunale una attenzione politica alla situazione locale sanitaria periferica, ha causato tuttavia indirettamente una reazione.

Non sono sicuro ma senz’altro la delibera, che arriva con un ritardo di numerosi anni tanto da rendere già obsolete le disposizioni assunte,  sarà scaturita da una approfondita analisi dei bisogni e delle necessità assistenziali e professionali dei quartieri e che saranno stati evasi i necessari confronti e dibattimenti con le comunità e con i professionisti interessati.

Grazie a questi numerosi scambi di vedute saranno stati presi in considerazione gli effettivi bisogni logistico/architettonici, assistenziali e professionali valutando anche quanto elaborato dalla letteratura di settore in questi anni che considera la multifunzionalità e la gradevolezza degli ambienti metafora della guarigione e del benessere.

Come emerge da numerosi resoconti, la vita della singole comunità non richiede la collocazione nei quartieri di poliambulatori ma di strutture in grado di rispondere alle necessità di una società moderna, attiva, con specificità identitarie e la peculiarità diffusa all’incremento delle cronicità ma anche di soggetti appartenenti alla così detta terza e quarta età tuttavia in buona salute, età che non può però essere risolta dal paradigma della città in 15 minuti.

Diversi commentatori hanno evidenziato come siano fondamentali le cooperazioni tra il sociale (inteso come servizi istituzionali ma anche come società civile organizzata) e il sanitario e come l’attività riabilitativa "continuativa" neuro-motorio e cognitivo-psicologico possa essere indispensabile anche per fasce di popolazione più giovane.

A tempo scaduto emerge l’urgente necessità di realizzare gli ospedali di comunità con mansioni anche di hospice (secondo quanto ricordato dal British Medical Journal) che, come dice la parola, per essere tale, cioè per essere Ospedale di Comunità, deve essere inserito proprio nella comunità stessa e nella struttura (Casa della Salute/Casa della Comunità) nella quale si realizza l’integrazione multiprofessionale (medicina generale, 118, continuità assistenziale), multidisciplinare (sanitaria, specialistica, diagnostica), multisettoriale (amministrativo, di volontariato e di terzo settore), relazionale (partecipazione della comunità di riferimento).

Tuttavia la lettura della delibera lascia numerose questioni in sospeso e non affrontate tanto da apparire inadeguata alle finalità che apparentemente sembra indicare.

Già sono passati molti anni dalla formulazione dei propositi contenuti nel testo del provvedimento e forse ne trascorreranno molti altri che potrebbero cambiare visioni, missioni e amministrazioni.

Al momento sembrano affiorare alcune criticità in merito alla condivisione con la popolazione, al confronto con la letteratura di settore, alla realizzazione degli spazi e delle funzioni tra le due Case della Salute/Case della Comunità citate nella delibera.

La mancanza di una visione ambiziosa, contestuale e allacciata alla realtà attuale continua la tradizione dell’opinione tendente al massimo ribasso (conto capitale e organizzazione corrente) inversamente a quello che dovrebbe essere il massimo rialzo (della qualità professionale e assistenziale).

Il concetto di visione ambiziosa (se non ora quando?) viene assimilata da alcuni come un pensiero puerile indegno di essere preso in considerazione e per questo manipolato in senso denigratorio. Manca la cultura del bene comune.

Tutto ciò non ha permesso un cambio di passo e trascina con sé le note criticità sanitarie (l’Ausl è commissariata da quasi due anni senza che nessun dirigente sanitario o responsabile amministrativo comunale abbia spiegato alla popolazione il perché) che continuano a condizionare questa città dando origine a quartieri e cittadini di serie A e serie B così come vi sono professionisti sanitari di serie A e B (manca una programmazione sanitaria territoriale locale efficace per le giovani generazioni di professionisti) e così tra gli stessi dirigenti sembrano esserci quelli di serie A e quelli di serie B.

Sembra proprio che Parma debba giocare "così così" sempre in serie B. Infatti, quale beneficio è arrivato in città grazie al commissariamento misterioso dell’azienda sanitaria locale?

Oggi le malattie improvvise incidono di meno sul complesso assistenziale e professionale delle patologie di lunga durata, quelle che rientrano nel termine cronicità.

Già è stato detto che molte persone della terza e quarta sono senili ma fondamentalmente sane. Quelli che si ammalano spesso non guariscono, si cronicizzano e quindi è assolutamente necessario pianificare con abilità e intelligenza una innovazione del territorio affinché riesca ad affrontare la presa in carico della fragilità (termine generale che contiene numerose forme di malattie o disagi) nella piena consapevolezza che affrontare le problematiche non significa trovare risposte universali.

Occorre ripensare e abolire gli ambiti territoriale e permettere ai giovani medici del territorio di formare gruppi omogenei, affiatati, numerosi e con uno specifico progetto assistenziale autogenerato che siano in grado di assumersi in carico un territorio di riferimento.

Una medicina basata solo sulle evidenze scientifiche non è in grado di affrontare la complessità sociale e sanitaria che non è mai lineare, protocollare, algoritmica, normativa, economicistica.

Occorre innovare e costruire un nuovo sapere fondato sui valori, sulla cultura, sull’esperienza, sull’etica, sul bello e sull’arte. Questo sapere deve essere autonomo, solido, costruito dalla comunità e realmente trasmissibile alle nuove generazioni di professionisti. Per molto tempo abbiamo pensato che la scienza potesse dare risposte appaganti ma ora comprendiamo che occorre tornare all’umanesimo. Covid docet.

Le comunità, insieme ai loro professionisti di riferimento, possono modificare il rapporto con la cura, la salute e il benessere. L’emergenza, lo scientismo, il vitalismo hanno rischiato di trasformare la cura il un oggetto di mercato.

Nella realtà il prendersi cura è un processo, un susseguirsi di momenti che si seguono nel tempo l’uno dopo l’altro e che si fondano non sulla guarigione (cosa significa guarire?) ma sulla relazione tra professionisti e persone che chiedono l’aiuto, familiari, colleghi, comunità…questi interessi uniti e basati sull’umanesimo possono, forse, incidere sull’attuale cultura regressiva delle istituzioni sanitarie e delle amministrazioni politiche.

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

22 febbraio 2022
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case della salute

La sanità pubblica nazionale e locale dopo il Covid, quale futuro?

Articolo di Bruno Agnetti pubblicato su La Repubblica Parma il 17/11/2021

Il ruolo del Governo Draghi nei fondi per la sanità

La questione sanitaria incalzata da una parte da un governo tecnico di salute pubblica e dall’altra dalle criticità organizzative regionali e aziendali per altro accresciute significativamente dalla pandemia (tuttora in atto).

Quando si legge che vi saranno sostanziosi finanziamenti per il Servizio sanitario nazionale che per effetto del noto titolo V può essere considerato essenzialmente regionale è necessario eseguire una severa azione di ragioneria contabile in quanto la quota a disposizione di regioni e Ausl sarà molto inferiore a quella annunciata in quanto una importante fetta di queste risorse dovrà essere utilizzata per risanare i debiti causati dalla pandemia.

Nella condizione di fuoco in cui il paese si trova questo Governo è costretto a mettere in essere un sistema per distribuire ricchezza ma prima di poterla elargire, questa dovrà essere prodotta.

Un presidente del Consiglio come Mario Draghi non ha particolari interessi a perseguire un consenso politico a breve termine e quindi non è costretto a spendere soldi per procacciarsi voti ma appunto è orientato ad investire per aumentare ricchezza per il paese e così poter governare la ripartizione. Questa è la direzione che pare aver imboccato questo Esecutivo.

Credere quindi che un incremento del Fondo sanitario nazionale corrisponda a realtà significa coltivare un’illusione se si analizza il bilancio passivo creato dal Covid che riassorbirà in larga parte almeno per quest’anno l’incremento previsto di due miliardi.

 

Le tante criticità del sistema sanitario locale

Tutto ciò è palesato dalle continue e incomprensibili scelte organizzative aziendali: apertura e chiusura dei centri vaccinali, ricerca confusa di un coinvolgimento dei medicina di medicina generale per le vaccinazioni domiciliari che in alcuni casi hanno creato l’obbrobrio delle liste d’attesa nella medicina generale per le altre patologie non Covid sia ambulatoriali che domiciliari e intasamento dei Ps, incertezza sul ruolo futuro degli Usca che una lungimirante visione governativa aveva istituito forse per rimediare a mancanze strategiche locali e per proteggere la professionalità olistica dei medici di medicina generale verso tutti gli altri assistiti, ricerca del prezioso contributo strutturale e operativo del privato che pare diventato determinate per i cittadini ora e domani, negligenza nel ricercare suggerimenti operativi variegati ancorché non ufficialmente ricompresi nei tavoli trattanti proprio perché in regime di commissariamento straordinario, completa superficialità e disattenzione che ha condotto a non concludere assetti organizzativi/contrattuali convenzionali fondamentali per poter ottenere una serenità professionale e assistenziale, un commissariamento aziendale ancora oscuro e tuttavia riconfermato quando in momenti di criticità la trasparenza dovrebbe essere imperativa, aziendalizzazione e unione tra le due aziendale cittadine pubblicizzati come se fossero bisogni fondamentali espressi e non espressi dai cittadini e dai clienti interni ed esterni.

 

Il commissariamento dell'Ausl

Alcune delle pregresse osservazioni meritano di essere comunque ri-evidenziate: a Parma ci sono molte problematiche irrisolte, irrisolvibili o confuse riportate in quasi tutti i Consigli comunali od oggetto di numerosi confronti tra maggioranza e minoranza ma nulla rimane più allucinante nella sua incomprensione politica del commissariamento dell’Ausl.

Cosi come inizia a essere tediosa la ripetuta filastrocca spesso centrotavola delle narrazioni delle alte dirigenze delle due aziende cittadine che sostiene che tutto va bene, tutto funziona bene e che le soluzioni organizzative attuate sono le migliori possibili. Sarebbe interessante poter svolgere un referendum popolare su queste affermazioni.

A questo punto con una sanità pubblica che appare smobilitata è lecito supporre che non ci siano risorse e nemmeno strategie per la medicina generale detta di base a livello locale e a livello nazionale in quanto, nella prossima finanziaria non ci saranno le condizioni dignitose per rinnovare i contratti del pubblico impiego, tanto meno quelli del personale sanitario, dei dirigenti medici e, buoni ultimi, dei medici convenzionati che dovrebbero essere il fondamento del servizio sanitario nazionale.

La vacanza contrattuale perdura ormai da otto anni: è una situazione che non si è mai vista nella storia del lavoro e delle professioni e che lascia senza parole. Senz’altro vi saranno interessi opachi atti a mantenere una situazione di questo tipo che permette alle regioni e alle aziende di diramare normative e delibere autonomamente come surrogati di rinnovo di pezzi di contratti lasciati inevasi nella loro completezza.

Un politico che si rispetti e che abbia a cuore il bene comune non si comporta così. Ed è quindi prevedibile che la sfiducia e la delusione possano tradursi in una riduzione dei consensi ( come la drastica diminuzione della partecipazione al voto fa chiaramente comprendere).

Infatti alla fine di questa partita governativa prettamente tecnica e con obiettivi ben determinati al governo del paese succederà inevitabilmente un governo politico. Questi governi e chi li guiderà saranno espressione di maggioranze più o meno composite, potenzialmente anche eterogenee, in un sistema elettorale proporzionale, che comunque guarderanno ai vari interessi economici e sociali rappresentati dal loro elettorato.

Non bisogna dimenticare che il welfare (sicurezza e benessere) e il servizio sanitario nazionale rappresentano la più formidabile macchina di consenso elettorale ancora in mano ai partiti. Nonostante la pessima figura di cui alcuni assessorati e aziende (con distretti e dipartimenti di cure primarie) danno prova, va comunque chiarito che la modifica del titolo V, l’abolizione delle aziende sanitarie, l’autonomia delle aggregazioni territoriali, l’innovazione del sistema assistenziale integrato di tutto il territorio, il riordino delle funzioni degli assessorati perché diventino istituzioni di garanzia dell’universalità dell’accesso al servizio sanitario, non sono al momento all’ordine del giorno.

Al posto di sorpassate certezze di apparato (che potrebbero illudersi di concorrere per ruoli di primo cittadino) occorre diventare illuminati statisti che sappiano costruire strategie e linee politiche molto inclusive e trasversali, prospettive programmatorie di lungo respiro e che sappiano indicare la strada migliore possibile per il futuro del bene comune.

 

Il ruolo della medicina generale di base

Si è dimostrata fasulla l’informativa diffusa come una sorta di strumento di distrazione di massa, o una apparente minaccia, quella di operare al fine di trasferire tutta la medicina generale convenzionata alla dipendenza (comunicazione delle Regioni) ipotizzando così una quadratura del cerchio a soluzione di tutte le disfunzioni territoriali (attribuiti nei documenti alla medicina generale quando in realtà probabilmente dipendono da un disordine organizzativo delle aziende stesse).

Quel documento delle Regioni non solo affermava baggianate offensive insinuando che i disservizi avvenuti durante il Covid dipendessero dalla scarsa governabilità dei medici di famiglia che essendo convenzionati e liberi professionisti non si potevano obbligare a svolgere le mansioni ideate monocraticamente o testardamente o consociativamente dalla regione o dalle aziende (ma quanti medici di medicina generale si sono ammalati di covid e quanti sono morti?).

Anche una persona senza nessun titolo politico capirebbe come possa essere velleitaria il passaggio a dipendenza della medicina generale convenzionata a causa dell’enorme impegno economico che partirebbe dall’allineamento contributivo con l’Inps e proseguirebbe con una revisione della attività dipendente della guardia medica a 38 ore settimanali  e che comporterebbe un costo complessivo a un datore di lavoro di un dipendente medico cioè di un professionista (nella normativa in vigore si definisce dirigente) che può oscillare dai 70mila ai 100mila euro annui per soggetto.

È evidente che l’operazione oggi appare estremamente velleitaria, impossibile e, forse irresponsabilmente provocatoria (causa di disagio sociale) al fine di ipotizzare nel breve periodo una esternalizzazione e una privatizzazione di molti servizi assistenziali di base.

Una illuminata parte pubblica (Governo e Regioni) dovrebbe invece pensare a modelli innovativi e a tappe intermedie che possano fare avvicinare l'organizzazione delle cure primarie e della medicina generale alle risposte necessarie rispetto alle nuove domande di salute.

Nel secondo millennio la conformazione sociale e le esigenze sanitarie o socio-sanitarie sono radicalmente cambiate ed è nozione diffusa quanto i determinanti di salute e il prolungamento dell’aspettativa di vita, spesso in buona salute, abbiano una importanza sostanziale sul benessere stesso e sulla componente economica (Covid docet).

 

La sanità e il Pnrr

Il Pnrr richiama con più precisione il tema della domiciliarità, della fragilità, della presa in carico dei pazienti non autosufficienti.

Encomiabile valutazione che forse, la solita persona senza cariche politiche avrebbe già affrontato ai primissimi segnali di globalizzazione e delle conseguenze che stavano avvenendo proprio sotto casa, nel suo quartiere (glocalizzazione) già dalla fine del primo millennio.

Sorge spontanea una domanda: quale strutturazione organizzativa potrebbe accollarsi questo onere e questa responsabilità?

È innegabile che le soluzioni non possano essere quelle di provvedere a un progetto in conto capitale che prevede presidi ingegneristici architettonici (case della comunità) ma di processi decisionali che mettano in campo spesa corrente cioè finanziamenti strutturati nel tempo, poste di bilancio dello Stato, perché le risorse umane necessarie ad assicurare i servizi di prossimità alla nuova domanda di salute possano condividere saperi ed esperienze in continuo apprendimento e quindi costantemente aggiornate e adeguate al mutare della scienza medica e della complessità sociale.

Le pregresse esperienze delle Case della Salute o di alcuni Percorsi diagnostici terapeutici assistenziali, che potevano rappresentare un pallido esordio di una innovazione assistenziale territoriale e di prossimità, sono stati deludenti.

Non è il luogo per proporre una disanima di questi esiti che richiederebbe ulteriore spazio ma certamente il fallimento di certe prove tecniche dipende da tre-quattro elementi: lo smaccato consociativismo; la cattiva abitudine gestionale culturale di costruire muri e inserire poi i professionisti alcuni si e altri no; la discriminazione o la differenziare che in questo modo si è prodotta in professionisti e assistiti; il non considerare fondamentale la costituzione di aggregazioni che primariamente si scelgano tra di loro (tra professionisti) in base a un patto/progetto iniziale di vera integrazione tra operatori che possa poi gradualmente svilupparsi nel tempo in relazione alle esperienze; la mancata sperimentare di una forte autonomia dei sistemi aggregati; il non aver mai pensato di risolvere storture normative banali che trascinandosi nel tempo hanno impedito lo sviluppo delle potenzialità delle aggregazioni (informatizzazione imperfetta); il non promuovere una forte autonomia delle varie categorie di professionisti nella costruzione dei progetti assistenziali, calando dall’alto normative e regole troppo distanti dal contesto operativo quotidiano.

Come bisogna rispondere alle nuove domande di salute? Che impegno economico comporta? Qual è il modello organizzativo più coerente alla teoria della complessità?

Sono temi che solo una visione sistemica/olistica può affrontare e che può abbozzare una possibile standardizzazione di prodotto che non vagheggia protocolli o algoritmi custodi assoluti di verità ma che siano tracce per costruire percorsi di team in grado di affrontare una complessità assistenziale territoriale impareggiabile proprio in quanto olistica e molto lontano dalle impostazioni riduzionistiche aziendali e regionali (la teoria della complessità, Giorgio Parisi premio Nobel per la fisica 2021).

Di tutta questa problematica non può essere in qualche modo incolpato il Governo attuale a forte trazione tecnica. Quando Draghi legge che l’Italia è al di sotto del 10%, rispetto all’Europa, nell’assistenza domiciliare è inevitabile che deliberi immediatamente un investimento perché si raggiunga la percentuale di riferimento poi, essendo un economista, non ha importanza per lui come questa percentuale europea venga raggiunta oppure esternalizzata o glacialmente protocollata o privatizzata.

Perché non è Draghi che deve indirizzare le scelte di ordine politico sanitario ma è compito di un ministro che eventualmente ascolta con molta attenzione la prima linea operativa.

La piramide gerarchica politica (in particolare regionale e aziendale) oggi fa altro, è distante anni luce da quello che giornalmente affronta la categoria dei sanitari di trincea.

Tutti oggi parlano di ridistribuire la ricchezza ma qual è la finalità di questa distribuzione: quella di rinforzare la Ausl, i distretti, i dipartimenti di cure primarie comunque sideralmente distanti dalla realtà e dispensatori di certezze e verità assolute e lineari?

Queste esperienze in gran parte fallimentari non potrebbero aspirare a designare un sindaco per la città. Occorre uno statista che sia in grado di affrontare la solitudine, la povertà, la famiglie mononucleari eventualmente con disabilità fisiche o mentali, gli appartamenti mono-bilocali inadatti spesso per Adi complesse, le cure palliative, l’assistenza comune quotidiana di attesa e di iniziativa, l’estremo rispetto per gli operatori ed i professionisti.

La strada futura (saranno necessari 2-4-6 anni ma quella sarà la via) dovrà considerare come distribuire la ricchezza all’interno del welfare intercettando in modo adeguato un contesto complesso e non lineare ricercando in piena collaborazione, rispetto reciproco, abolizione completa del consociativismo gli strumenti più adeguati quali autonomia, progettualità condivisa, aggregazioni eccellenti nelle relazioni e nell’apprendimento reciproco.

Come è già capitato con le case della salute anche con le case della comunità ci si potrebbe trovare difronte a cattedrali nel deserto rischiando, ancora una volta, di non rispondere ai bisogni espressi e non espressi e di buttare soldi dalla finestra.

E’ necessario comunque chiarire che questo aspetto non è un problema di questo Governo. All’esecutivo interessa mettere in piedi i canteri, l’edilizia, gli stipendi, l’aumento del Pil e degli occupati che alla fine useranno i loro soldi perché aumenti la ricchezza collettiva, il prodotto interno lordo e conseguentemente la possibilità di redistribuire la ricchezza prodotta in servizi per la collettività.

Per evitare che le risorse che saranno investite, vengano sperperate in operazioni di bassa cucina politica, è necessario coinvolgere gli esperti nel campo della complessità assistenziale (ad esempio i medici di medicina generale) e affidarsi alle loro idee innovative e sempre orientate alla tutela degli interessi comuni.


Direttore Assistenziale: come abbiamo fatto senza questa figura apicale fino ad ora?

26 LUG - Gentile Direttore,
quando si avvicina agosto (meglio se il 14) o dicembre (meglio se il 24) l’esperienza insegna che la tecnocrazia monocratica regionale o nazionale (o chi per esse) puntuali come una cambiale o una bolletta (con gli immancabili oneri aggiuntivi per la medicina generale) determinano modifiche gestionali simili a quelle testè annunciate dall’Assessorato alla Sanità della Regione Emilia-Romagna.

Dopo la storica e forse inimitabile delibera sulle Case della Salute del dicembre del 2016, quest’anno l’Assessore Regionale Donini ha dato il via alle grandi manovre per nominare la figura del Direttore Assistenziale all’interno dell’Alta Dirigenza delle aziende sanitarie.

L’impareggiabile delibera sulle Case della Salute del 2016 ha prodotto il risultato di una paralisi completa del programma assistenziale territoriale svolto attraverso gli strumenti delle CdS a causa di un testo organizzativo incomprensibile, fumoso e borioso che ha ostinatamente rifiutato il confronto e la condivisione conclusiva con i professionisti interessati. Infatti la delibera del 2016 ha creato, se possibile, ancor più differenziazioni professionali ed assistenziali tanto che il PNRR ha “dovuto” modificare almeno la denominazione del progetto strutturale in “conto capitale” con il termine Case della Comunità.

La sostanza non cambia in quanto ciò che conterebbe effettivamente è il “conto corrente” sulle risorse umane ma utilizzando un altro vocabolo ed un nuovo acronimo si è tentato di posticipare il verdetto fallimentare sulle Case della Salute nonostante il radioso esordio (2010) proprio in Emilia-Romagna ed in particolare nella AUSL di Parma. E’ poi mancato la capacità ed il coraggio di innovare e la delibera de 2016 ha definitivamente affossato le potenzialità di sviluppo e di riforma. La recente Mozione del Consiglio Nazionale della FNOMCEO del 23 luglio 2021 ha espresso poi, chiaramente, l’ennesimo parere pesantemente negativo anche sul disegno delle Case della Comunità contenuto nel PNRR.

L’iniziativa dell’Assessorato alla Sanità è stata definita un “discutibile maquillage organizzativo” e ha rimediato una richiesta di dimissioni dell’Assessore stesso (… “a tanta protervia, manifesta miopia e incapacità di svolgere un ruolo istituzionale, l’unica parola che ci sentiamo di opporre è “dimissioni”, subito, senza se e senza ma”) da parte di numerose sigle sindacali. Forse l’Assessore ha confuso l’apparente semplicità sanitaria (“iniziativa che apre l’ennesimo poltronificio ad alto costo”) con la sua “suprema sofisticazione” organizzativa territoriale e professionale che ancora una volta pare spiazzare i verticismi delle piramidi decisionali.

I commenti apparsi su QdS sono stati numerosi: svariate sigle sindacali hanno stigmatizzato le strane manovre relative alla raccolta firme ”spontanee” a sostegno del progetto dell’Assessorato; gli Ordini dei Medici della Regione hanno bocciato l’iniziativa; molti singoli colleghi hanno espresso le loro preoccupate perplessità; “…certi metodi di ricerca del sostegno plebiscitario…ricordano tristissimi tempi passati, non degni della storia di questa regione” (OOSS ospedaliere e territoriali); “ approfittando forse della confusione pandemica,( la Regione ndr) decide di istituire nuove figura apicali e conseguenti nuove strutture ” (Pietro Cavalli).

Non è necessario quindi in questa sede ripetere argomentazioni già pubblicate da vari commentatori anche perché, come gli eventi dimostrano da anni, ci si trova comunque sempre in ambito di “esercizi letterari” che possono incuriosire qualche lettore di nicchia ma che non sono in grado di delineare nessuna influenza nei confronti degli apparati monocratici verticistici e decisionali di un Servizio Sanitario che lentamente ma inesorabilmente scivola verso la privatizzazione anche della medicina territoriale.

“E’ del poeta in fin la meraviglia” apprendere comunque ora, nell’estate 2021, in piena pandemia (l’emergenza sanitaria è stata prorogata fino a 31dicembre 2021 così come lo smart working di uffici e funzioni collegabili all’ambito sanitario) che in tutti questi anni il Servizio Sanitario ha marciato senza questa nuova figura apicale.

Di norma sul territorio i medici di medicina generale da anni cooperano in piena armonia con gli infermieri territoriali nei così detti NCP (Nuclei di Cure Primarie) e dimostrano, quotidianamente insieme, una capacità organizzativa in grado di risolvere autonomamente problematiche impreviste proprio perché medici e infermieri operano in team paritari e nel reciproco rispetto. Da questo punto di vista, modificando i punti di riferimento e di co-operazione l’ipotizzata Direzione Assistenziale potrebbe generare confusioni operative e focolai di conflittualità professionale nell’attività assistenziale territoriale: di questo non se ne sente certo il bisogno.

Attualmente in Regione il Responsabile del Servizio Assistenza Territoriale (la funzione denominata anche “Direzione generale cura della persona, salute e welfare. Servizio di Assistenza Territoriale” è stata da anni ricoperta da Antonio Brambilla e poi, per un breve periodo, da Luca Barbieri) è Fabia Franchi già Direttore dell’Azienda di Casalecchio di Reno, infermiera e caposala.

In ogni AUSL e AO le funzioni di quello che ora si intende far rientrare nel ruolo del Direttore Assistenziale (componente dell’Alta Dirigenza) è da sempre stato svolto dal Direttore Sanitario.

Ogni Azienda include già ora, tra i propri responsabili, il Direttore del Servizio Infermieristico e Tecnico che sovraintende una struttura complessa.
Infine l’Azienda Ospedaliera/Universitaria di Parma ha immediatamente aderito alla sollecitazione dell’Assessorato alla Sanità deliberando in data 23 luglio 2021 l’assunzione di 9 dirigenti le Professioni Sanitarie: due Dirigenti delle Professioni afferiranno alla Direzione Sanitaria (verosimilmente in staff) e sette Dirigenti delle Professioni Sanitarie sono riservati all’assetto gestionale organizzativo dei singoli Dipartimenti aziendali ( non è chiarito nella delibera se dirigeranno strutture semplici o complesse).

L’obiettivo principale è quello di consolidare gli aspetti organizzativi in considerazione dell’unificazione delle due aziende AUSL e Ao tanto che la stessa designazione delle Dirigenze Professionali viene ritenuta “essenziale” per la regia del Dipartimento Assistenziale.

Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria) FISMU (Federazione Italiana Sindacato Medici Uniti)
Regione Emilia-Romagna

26 luglio 2021
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Medicina di base, aggregazioni territoriali e sistema vaccinale in 3° ondata

Il Covid ha palesato come il confronto pluriennale culturale in merito ad una necessaria revisione del sistema assistenziale sociale e sanitario territoriale a favore del decentramento di servizi sanitarie sociali in strutture che siano in grado di poter offrire tutte le risposte ai bisogni territoriali, non sia servito proprio a nulla. La prima ondata della pandemia ci ha colti di sorpresa ma comunque qualcuno ha sostenuto che siamo stati i migliori (…a tutt’oggi circa 99.000 morti come se una città come Ancona o Novara venisse cancellata dall’atlante …  e il numero di medici deceduti sul campo -260- resta quello più grande d’Europa). Purtroppo c’è stata anche la seconda ondata ed ora siamo in piena terza ondata.

Una legge di
riforma del SSN con particolari indicazioni per il territorio, pur disattesa,
c’è (2012), non è stata abrogata anche se, oramai, dopo il Covid potrebbe
mostrare tutta la sua vetustà. Nel frattempo la società ha cavalcato
velocemente  il tempo e la politica
sanitaria non è stata in grado di garantire una progressione corrispondente ai
professionisti “tutori della salute delle persone” e di conseguenza ai servizi.

Più o meno palesemente la visione ospedalocentrica (non loderemo mai abbastanza la prova di straordinaria professionalità che è stata offerta alla cittadinanza da parte di tutti i lavoratori coinvolti ad ogni livello) resiste con forza. L’ospedale dovrebbe svolgere il ruolo di punto di riferimento per il proprio territorio in merito alle acuzie e per gli approfondimenti di 2° e 3° livello ma per forza di cose (mancato riordino delle cure primarie) l’ospedale continua ad occuparsi di patologie croniche e la co-operazione con la medicina di base e i servizi sociali risulta ancora complessa (salvo rare eccezioni).  L’esternalizzazione al privato o alle società di servizi accreditate ha permesso di allargare l’offerta e l’opportunità di poter rispondere ai bisogni di salute sulle patologie non trasmissibili (es.: tumori, patologie cardiovascolari)  ma nello stesso tempo ha consentito sostanziali tagli  di posti letto nel pubblico improvvisamente resi evidenti dalla pandemia covid: in Italia nel 2012 vi erano 12,5 posti letto in terapia intensiva  per 100.000 abitanti mentre la Germania aveva 29,2 posti letto per 100.000 abitanti. Non dovrebbe più capitare che scellerate scelte etiche debbano sottostare alla scarsità di risorse causate da pregresse dissennate abolizioni di presidi territoriali che rappresentavano, anche nei nostri territori, punti di riferimento eccellenti per prestazioni e gradimento. Una recente indagine relativa ai primi 8 mesi del 2020 ha evidenziato come ad ogni posto letto in meno per 1000 abitanti è associato un 2% in più di aumento della mortalità generale (il dato comprende sia la riduzione dei posti letto in terapia intensiva che negli altri reparti ospedalieri coinvolti o meno nella pandemia covid. Anaao Assomed 2021).

Bisognerebbe ripartire da qui, cambiare passo da subito, modificare
radicalmente ciò che deve essere cambiato.  Ripensare 
a percorsi di cura assistenziali territoriali periferici  che in tempi celeri  possano essere sperimentati effettivamente
nei quartieri della città e nelle zone rurali/montane superando monotoni e
retorici modelli autoreferenziali  sconfitti  dai cambiamenti sociali o addirittura  paralizzati  da se stessi cioè dalle stesse delibere  che li proponevano come  innovazione in risposta ai bisogni dei
cittadini e alle deliberazioni delle Conferenze socio-santarie provinciali  (es.:  
Del Reg. n. 2128 del 5 dicembre 
2016). A volte
paradossalmente le iniziative così dette di innovazione del territorio vengono
dalle stesse voci che hanno partecipato a ridurre quei presidi territoriali
molto apprezzati dalla popolazione.

Le
aziende Ausl e Ao, tutt’ora concentrate verso l’obiettivo principale della
costruzione dell’azienda unica (progetto iniziato molti anni fa desueto anche
dal punto di vista economico), avrebbero un compito superiore se si dedicassero
alla salvaguardia dell’universalismo delegando il completo processo decisionale
e l’operatività ai professionisti e alle loro comunità. Il territorio in
autonomia può già da ora assumersi il compito di sorvegliare i processi di
screening, di prevenzione, di diagnosi, cura, la domiciliarità, l’attività ambulatoriale
di attesa e/o attiva, l’organizzazione operativa in team e riabilitazione così
come può governare eventuali ospedalizzazioni che considerino, per la maggior
parte dei casi, il reinserimento nel territorio.

In
periodo covid la medicina generale meglio conosciuta come medicina di base
sarebbe di gande aiuto e servizio alla popolazione (partecipazione dei Medici
di Base  al processo  vaccinale)  
se potesse svolgere   il proprio
ruolo e la propria funzione ambulatoriale e domiciliare di routine.  

I
centri vaccinali aziendali  che hanno
dimostrato  efficienza  ed efficacia 
dovrebbero senz’altro essere potenziati  
ed affidati  non ai medici di
base  ma  ad altri settori della medicina generale (
medici di medicina generale di continuità assistenziale o guardia medica,
medici di medicina generale USCA, medici di medicina generale Corsisti, medici
di medicina  generale della Medicina dei
Servizi, medici di medicina  generale con
Contratti ad Hoc, medici di medicina 
generale  della Medicina Penitenziaria,
medici di medicina  generale della
Emergenza Territoriale, medici di medicina generale Volontari ).

La
platea dei medici vaccinatori potrebbe quindi essere vastissima e più che
sufficiente per raggiungere gli obiettivi che il Ministero della Sanità e gli
Assessorati alla Sanità hanno dichiarato. In caso di necessità le prefetture
potrebbero concordare con le AUSL il reclutamento di medici pensionati
specialisti o di medicina generale.

Tutto
ciò potrebbe limitare la pratica degli annunci dissonanti e la confusione che può
 rischiare  di   generare conflitti tra professionisti e
assistititi.

La
retorica può nascondersi nelle pieghe dei così detti documenti ufficiali (anche
nei protocolli di intesa nazionali che stabiliscono il coinvolgimento dei
medici di medicina generale nella campagna vaccinale). I ricercati elenchi di
dichiarazioni di intenti delle  premesse
burocratiche dei vari accordi  possono
avallare  disegni molto più prosaici di
quelli annunciati così che, invece di semplificare o risolvere effettivamente
le problematiche che  vorrebbero
eliminare, nella pratica, complicano orrendamente  il fluire naturale delle operatività tipiche
del medico di base  che  potrebbe occuparsi  di quelle innumerevoli forme di  patologie 
che tutt’ora  esistono  e che il covid pare aver fatto evaporare.

Infatti
le liste d’attesa relative ai controlli periodici delle patologie croniche sono
significativamente aumentate. Se il medico di base viene distolto dalle sue
funzioni per occuparsi di vaccinazioni chi curerà le persone?   

I
dati derivati dalle rilevazioni sulla pandemia (guariti, vaccinati, contagi,
ricoverati e decessi) da più di un anno, quotidianamente, mostrano come la
fragilità conviva con noi e come stia crescendo il fenomeno dell’indifferenza
(involontaria) nei confronti dei problemi degli altri causata a sua volta da un
 timore generalizzato (di morire). 

E’
certamente vero che tutte le categorie esigono per se stesse (in quanto si
ritengono fondamentali per il funzionamento sociale) il vaccino con una
prelazione nei confronti di altri gruppi. 
Pare che durante la campagna vaccinale vi siano stati anche condotte di privilegio.
 Quel pezzo di paese che pensa di dove
rimanere ancora per molto tempo nell’isolamento a causa della paura potrebbe
vedere la parte di persone vaccinate, senza che ne avessero necessità
prioritarie, come usurpatori di un diritto. Tutto ciò potrebbe scatenare solchi
e rabbie profondissime se i principi di solidarietà sociale e di empatia venissero
travolti. 

E’ doveroso  a questo punto   avviare sperimentazioni coraggiose  perchè nella sanità, oggi, se  queste prove  sono reali e sollecite, possono rappresentare la base o il denominatore per progettare una città completamente diversa che si rialza dalle proprie macerie e che, come negli anni 50 e 60, è in grado di generare un nuovo miracolo economico e sociale.

Un
sistema assistenziale periferico di riferimento (e quindi autorevole) di
quartiere o di territorio così come è stato proposto innumerevoli volte cioè
completo, “grande”, bello, adatto per l’attività ambulatoriale ma anche
residenziale per le patologie della senilità e con letti osservazioni (Ospedale
di Comunità)  anche in pandemia covid avrebbe
potuto fare la differenza.

In questo momento di Covid, dove la vaccinazione delle persone è l’obiettivo principale, mancano strutture autonome ed adeguate al compito  (salvo rare singolarità) ma  la medicina di base  può  attualmente svolgere un importante  compito di prossimità accogliendo la sensazione di allontanamento dal SSN manifestato da numerosi assistiti convinti che il loro problema non interessi a nessuno.  I medici di base  punti di riferimento delle loro comunità sono in grado di pretendere dalle istituzioni  informazioni precise e dettagliate. In virtù delle indicazioni possono poi proporre, come “tutori della salute delle persone”, aggiustamenti e modifiche  delle comunicazioni affinche’ i cittadini  possano  percepire  che il “loro” problema è stato preso in carico e che  il professionista si adopererà con responsabilità decisionale affinchè  ogni assistito  possa conoscere in  quando potra’ essere vaccinato, in che luogo,  da chi e come.  Inoltre il rapporto fiduciario che lega assistito e medico di base permette di rassicurare l’assistito  che la platea dei vaccinatori è tale che i vari gruppi target verranno vaccinati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. In un momento dove molti sono costretti a rinunciare a qualche cosa sviluppando timore o rabbia repressa poter contare su un medico di base di riferimento significa essere incoraggiato e rincuorato che  i comportamenti di protezione individuale ben noti saranno più che sufficienti a  proteggerli fino al momento   della vaccinazione. 

Questa condotta professionale, allo stato attuale della pandemia in 3° fase,  può rappresentare una effettiva  partica del farsi carico e del prendersi cura dell’assistito.  Da questo punto di vista vanno abolite tutte quelle comunicazioni o quegli annunci che non spiegano nulla di quello che le persone desiderano sapere o pensare. Occorre che anche la politica locale consideri necessario trovare soluzioni ai problemi delle persone che attendono di essere vaccinate.  Compresi quelli emotivi e psicologici. Se mancano i vaccini occorre dichiararlo apertamente e garantire la data in cui saranno disponibili perchè la politica è l’arte di fare accadere le cose e queste accadono se le intelligenze e le competenze si uniscono. In questo momento nessuno puo’ dirsi estraneo e mai come ora la scialuppa è una sola e deve contenere tutti.

Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria) FISMU (Federazione Italiana Sindacato Medici Uniti)
Regione Emilia-Romagna 07 marzo 2021


Assistenza. L’importanza del servizio sanitario territoriale periferico. Ricominciamo?

Articolo a cura di Bruno Agnetti

Pubblicato su Gazzetta di Parma il 17 Aprile 2020

Questa epidemia (gia’
ampiamente prevista nel 2017) ha colto il nostro sistema sanitario impreparato
per quanto riguarda gli ospedali e il  territorio 
( screening, monitoraggi, mascherine). Una organizzazione periferica
adeguata avrebbe forse rallentato l’infezione lasciando più tempo per la ricerca
di efficaci strategie terapeutiche. Come Comunità Solidale Parma da anni
proponiamo soluzioni innovative per il territorio (Casa della Salute o Casa del
Quartiere) dirette ad assolvere e ad affrontare le nuove sfide “imposte dalla
globalizzazione”. Abbiamo ribadito come 
fosse necessaria una ideazione ed una progettazione  che veda dall’inizio coinvolti i diretti
interessati e gli attori dell’assistenza territoriale ( innovazione del
processo decisionale). A Parma c’è un eccellente modello di come possono essere
stabilite alcune ipotesi di disegno progettuale e di come si possano realizzare
(l’Ospedale dei Bambini).  Le
problematiche relative all’organizzazione territoriale palesate durante questa
epidemia richiedono un apprendimento veloce che superi tutte le esitazioni passate
al fine di costruire un futuro assistenziale periferico che abbia il maggior senso
possibile. Si è inoltre capito che nessun sistema economico (che vedrà una
profonda innovazione e riconversione) può sopravvivere senza una sanità
pubblica forte e saldamente ancorata al territorio (welfare di comunità-sussidiarietà
circolare-collegio del territorio-partecipazione non dominante delle imprese
generatrici).  Questo virus non fa
differenze e colpisce il cittadino semplice, 
l’anziano, lo sportivo, il ministro o l’industriale famoso. Non c’è
“buen retiro” che possa proteggere.  La
salute di tutti dipende quindi dalla salute di ciascuno, siamo interdipendenti
e solo insieme potremo affrontare i prossimi problemi o altre pandemie o altre
modificazioni globali che condizioneranno il nostro benessere.

Comunità Solidale Parma ha da sempre sostenuto l’importanza di difendere il Servizio Sanitario Pubblico ed in particolare, per suo statuto, la medicina generale territoriale in coerenza con il paradigma assistenziale bio-psico-sociale.  Un servizio sanitario territoriale periferico ben organizzato e con locali adeguati puo’ aiutare a far fronte alle emergenza, offrire cure precoci per molti e di conseguenza   sostenere   anche il sistema produttivo di un quartiere. Pensiamo che la medicina di base sia un bene comune per i cittadini e che medici e  sanitari debbano essere protetti affinchè non si ammalino continuando così a  sorreggere  il sistema territoriale  senza rischiare il collasso. Pensiamo a tutte le persone ammalate di patologie croniche non collegate al Covid-19  e che  necessitano di controlli periodici a volte essenziali.  La salute è quindi considerata un bene comune e deve essere gestita come tale. E’ interesse collettivo che le comunità ( es.: i quartieri con le loro Case della Salute)  possano in caso di necessità  organizzarsi rapidamente con autonomia anche se poi naturalmente saranno necessari  interventi dei presidi di 2 livello e strategie nazionali vincolanti. Arriveranno i farmaci efficaci.  Al momento occorre però che la popolazione dimostri  ancora senso di responsabilità perché il virus è tutt'ora in circolazione pronto a causare altri guai.  Con le cure opportune finirà definitivamente anche il confinamento e potrà riprendere il sistema produttivo foriero a sua volta di benessere perché anche la salute richiede una società attiva. Le relazioni sociali hanno già iniziato a mutare. Sono diventate essenziali.  Piano piano comprendiamo come il valore sia dato dai rapporti con gli altri e con il territorio.  Ci sono naturalmente altri beni comuni interconnessi ed interdipendenti come l’ambiente, l’istruzione, la cultura, la biodiversità. La lezione di resilienza imposta da questa pandemia ci ha liberati,  nell'immediato, dalla cultura consumistica del  “voglio tutto e subito”. Il mondo è improvvisamente apparso come limitato e fragile non più  gigantesco ed infinito. Il virus inoltre lascia purtroppo tracce profonde che resteranno per tutta la nostra vita ( disoccupazione, fallimenti, decessi in solitudine, sofferenze e difficoltà nel poter curare tutti). Usciti dall'emergenza non potremo accontentarci  di posizioni  marginali o burocratiche  che pensino  di aggiustare nell'invarianza  il nostro sistema sanitario territoriale in attesa della prossima pandemia ( che ci sarà!) o della prossima catastrofe o del prossimo disastro. Senza un sistema territoriale efficace in grado di prendersi cura non può esserci salute  e benessere collettivo ( ed economia). Da questo punto di vista la ripresa deve essere adeguatamente progettata, comunicata e sperimentata (democrazia deliberativa).  L’integrazione socio-sanitaria, riconosciuta come bene comune,  nelle sue strutture periferiche  può così svolgere  nel periodo della ripresa un importante ruolo  di riferimento  per una comunità e quindi  offrire un importante  strumento di ammortizzatore sociale. Già ora si prevedono tensioni, agitazioni, rancore ed insofferenza causate dal possibile incremento delle disuguaglianze e dei fenomeni di impoverimento. Una Struttura Sanitaria di quartiere ( es.: una casa della salute innovativa  nel processo decisionale  e  nel suo sistema gestionale interno autonomo) può rappresentare una risposta valida e convincente  alle nuove istanze  e ai nuovi bisogni di protezione  delle  fasce più deboli e periferiche  della società  alle prese con le conseguenze  della  globalizzazione  e delle trasformazioni radicali dell’ordine strutturale sociale.  Da qualche anno Comunità Solidale Parma promuove la realizzazione di una struttura  complessa di riferimento sanitario ( Casa della Salute Grande)  per un quartiere come quello di San Leonardo. Questo territorio contiene al suo interno tanti servizi per l’intera città.  Conta, nel suo complesso 30.000 abitanti.  Tutto ciò che avviene nel villaggio globale può portare nodi che vengono al pettine anche nelle nostre “sconosciute” periferie del “mondo piccolo” in quanto i nostri territori sono anch’essi costantemente  interconnessi  con tutto ciò che accade nel mondo, anche in Cina!  E’ quindi opportuno un cambio sostanziale di paradigma e di processo decisionale in campo sanitario territoriale per poter affrontare con forza e comunanza le sfide del presente e del futuro con visioni alte e lungimiranti   per il bene comune. La speranza  non è utopia ma è creatività, intelligenza politica e pura passione civile che agisce per vincere la paralizzante apatia ( invarianza e inazione) dell’esistente.

Comunità Solidale Parma