La narrazione favoleggiante sulle Case di Comunità

29 APR - Gentile Direttore,
sul tema “comunità”, che per estensione potrebbe inglobare anche il termine “Case della Comunità”, sembra proprio che Bauman e altri pensatori insieme a lui (Zamagni, Cavicchi, Benasayag, Byung-Chul Hann, Benanti, Floridi, Mortari, Morin…) abbiano scritto inutilmente le loro opere. Se le varie forme di “comunità” si sono liquefatte sotto i colpi della globalizzazione, dovrebbe apparire paradossale, una vera contraddizione in termini, imporre, oggi, per normativa, strutture edilizie in conto capitale definite “Case della Comunità” (CdC). Forse sarebbe stato più lineare continuare a definirle “Case della Salute” (CdS).

La vulgata che le CdC siano una innovazione nei confronti delle CdS in quanto nelle CdC verrebbero inseriti, in modo tutt’ora incomprensibile, il terzo settore e il sociale non corrisponde al vero: basta leggere i documenti riferibili alle CdS (2010) ed eseguire una banale ricerca per parole chiave. Così come potrebbe essere sorprendente scoprire che i temi dell’ambiente e del contesto (oggi è di tendenza il temine “one health”) sono già ricompresi addirittura nella legge 833 del 1978. 

La narrazione favoleggiante sulle CdC è quindi triste ed infelice dall’inizio, manca di trasparenza, è informativamente asimmetrica. Non risolverà i gravi problemi che discriminano assistiti e professionisti in quanto differenziati nella fruizione dei servizi. Pare ancora una volta che la visione individualistica e consumistica aziendale abbia il sopravvento e manifesti l’incapacità di sperimentare nuovi assetti comunitari immersi nella molteplicità della complessità e che rifiutano la gerarchizzazione proprio perché gli assistiti ed i professionisti non sono riducibili ad una rigida dimensione.

In ogni caso l’istinto ontologico volto a creare piccole comunità potrebbe trovare, in ambito sanitario, un estremo appiglio proprio nella relazione fiduciaria (rito collettivo?) che contiene in sé aspetti pattizi ed etici.

Le situazioni di commissariamento e sub-commissariamento che perdurano, anche in realtà unanimemente considerate modelli per il paese, non aiutano né a cogliere il significato di siffatte precarietà gestionali/organizzative né a limitare le problematiche che tendono a deteriorarsi di mese in mese. Il caos non permette mai di conoscere una strada da seguire ma abbandona le persone e i professionisti di buona volontà ad un orizzonte impenetrabile.

E’ commovente come, ancora una volta, nelle regioni dove le Ausl si reputano, in modo autoreferenziale, le più avanzate, siano state organizzate, dalle Aziende Sanitarie insieme alle Amministrazioni Comunali, all’Università e ad alcune Associazioni estranee ai territori di interesse, percorsi formativi per i soggetti che direttamente o indirettamente dovranno, secondo gli intenti, popolare le CdC. I percorsi dovrebbero servire ad accompagnare la così detta “partecipazione dal basso”. Fotocopia di quanto è già capitato all’inizio della stagione consociativista per le Case della Salute con i risultati che sono di fronte agli occhi di tutti.

Secondo la letteratura, l’attività di condivisione delle scelte sanitarie pubbliche che interessano i cittadini di un quartiere dovrebbero seguire le regole della co-operazione e riguardare l’intero processo decisionale. Significa che bisognerebbe partire insieme, allineati e parificati, nel rispetto delle specificità non gerarchiche ma curriculari. Il primo step è quello dell’ideazione. Poi si passa alla progettazione, di seguito alla realizzazione per poi terminare con la sperimentazione e la stabilizzazione. Il compendio è dato dalla rendicontazione rivolta ad es.: alla popolazione di un quartiere da parte dei professionisti fiduciari di riferimento che sovraintendono l’intero processo. Quando invece le istituzioni sovraordinate (es.: DM77, Metaprogetto, Regione, Ausl, Amministrazioni locali, Associazioni nazionali…) cercano di convincere i diretti interessati “ad integrarsi” alla fine del processo, cioè dalla coda, allora la trasparenza fa difetto e si crea quella che si definisce una asimmetria informativa. Ed è qui che casca l’asino.

Desta oltremodo meraviglia che le istituzioni (e di conseguenza i processi di formazione da loro attivati) non siano nemmeno in grado di conoscere e di valorizzare esperienze che negli anni si sono dispiegate sotto il loro naso. Oltre alla cronicità e alle fragilità esistono anche persone della 3° e 4° età ancora in buona salute che avrebbero un grande vantaggio nel poter usufruire di servizi sociosanitari completi in una struttura di quartiere raggiungibile in 15 minuti dalla propria abitazione. Si dovrebbe considerare che numerosi pensionati e anziani, ormai mediamente alfabetizzati in ambito sanitario se non addirittura intellettuali del settore, sono in grado di avvalorare ancor di più la stratificazione generazionale professionale, i quartieri e il volontariato. Soprattutto non gradiscono essere considerati manovali prestazionali finalizzati all’efficientamento di disservizi di competenza pubblica.

Le notevoli risorse utilizzate per dare vita a Comitati di Indirizzo, Gruppi di Progetto, Patti Sociali, Percorsi Formativi hanno ignorato il contesto specifico, hanno coinvolto associazioni esterne ai quartieri o ingaggiato soggetti privi di curriculum coerente. Si è arrivati perfino a sostenere modelli amazzonici (sic!) per i “nostri” territori.

Dalla stagione delle “Case della Salute” ciò che non è mai stato effettivamente risolto è la necessaria parità di risorse di partenza per cittadini e professionisti (strutturali, organizzative, gestionali ed economiche). Molti pazienti, di fatto ma non di diritto, e i loro professionisti sono quindi diventati, da numerosi anni, di serie B. Tuttavia, i mmg, ancora punti di riferimento per una popolazione, anche se discriminati, tentano di risolvere i bisogni dei loro assistiti nel miglior modo possibile. Non si può però pretendere da questi medici più di quello che fanno anche perché, se il SSN sta ancora in piedi, molto è dovuto al loro silenzioso e quotidiano lavoro di prossimità. Il pensiero unico, che si auto assolve sempre da ogni responsabilità, non si è mai interessato fattivamente delle competenze delle piccole comunità forse irritato da una loro, ormai esigua, autonomia (che verrebbe eliminata completamente dalla dipendenza). Spesso ne hanno ostacolato l’operatività tanto che, nelle inevitabili difficoltà, prontamente puntano il dito su un presunto insufficiente volontarismo di professionisti e cittadini.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

29 aprile 2024
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“Comunità”, termine inflazionato?

08 APR - Gentile Direttore,
“In quel paese che sorge in qualche angolo dell’Italia… nella pianura del Po… ciascuno lotta a suo modo per costruire un mondo migliore… e qui accadono cose che non accadono in nessuna altra parte del mondo…”. Si diceva così nel film (1952) tratto dal romanzo di Giovannino Guareschi, “Don Camillo”.
Il termine “comunità” diventa dominante, in particolare nelle alte amministrazioni e nelle alte dirigenze, (salvo realtà germogliate nel volontariato in tempi non sospetti dopo lunga meditazione e condivisione) dopo i suggerimenti contenuti nel PNRR. Risente di contingenze e di modifiche interpretative e, per questo, è poco autorevole: non ha avuto il tempo di generare una narrazione veritiera. Non crea coraggio. E’ disfunzionale. Non crea comunità e viene percepita come un surrogato intellettuale che offre un finto senso di identità a buon mercato.

Non è il modello di cure primarie del Brasile o quello Portoghese (sic!) pur tuttavia emerge, nel “mondo piccolo”, qualche esperienza sanitaria di base o territoriale, ben “stagionata”, che potrebbe ottenere miglior fortuna a fronte di ipotesi di tendenza ma alquanto salottiera.

Purtroppo non sono gli appelli o le petizioni che modificheranno la brutta china scivolosa nella quale si trova il nostro sistema sanitario (in particolare quello territoriale). Le cause sono note. La presenza, tra i firmatari delle istanze, di persone che meritano un indiscutibile rispetto non nasconde il fatto che vi siano responsabilità storiche perfettamente identificabili.

La criticità relativa al finanziamento è certamente un argomento serio. La globalizzazione e l’egemonia finanziaria alimenta un consumismo che tende all’infinito. Di conseguenza i fondi non saranno mai sufficienti se oltre all’aspetto economico/finanziario non si associa una solida riforma compossibile previo ampio dibattito pubblico con i professionisti e i cittadini o almeno parlamentare. In questi anni la Conferenza Stato Regioni ha esercitato un ruolo decisionale quasi egemonico con la propria Commissione Sanità continuamente presieduta dai rappresentanti di una o due regioni: la sola questione danarosa quindi potrebbe apparire come un ineccepibile alibi piagnucoloso al fine di oscurare i pregressi processi decisionali controriformisti o esigenze di apparato.

Il mondo della sanità si sta orientando in senso opposto alla 833? Il nostro paese non ha una sovranità tale da potersi opporre, a livello sanitario, al consumismo neo-liberale? Lo si dica chiaramente e forse la società civile, stanca di gestioni consociativistiche e deludenti, troverà una soluzione già sperimentata nella sua storia di associazionismo e di auto-aiuto.

Se invece si considera la sanità una delle più importanti opere pubbliche della nostra nazione occorre trovare il modo di non abbandonare questo bene comune ricorrendo, con responsabilità bipartisan, a modelli come il Welfare di Comunità (vero!) elaborato da Stefano Zamagni e al medico autonomo/autore di Ivan Cavicchi.
La riforma 833/1978 è stata crivellata, dalla sua promulgazione ad oggi, da una infinità di controriforme (nazionali e locali) che l’hanno sostanzialmente annullata.

Attualmente l’asfissiante chiacchiericcio sulle Case della Comunità, Ospedali di Comunità, Distretti, dipendenza dei mmg ecc. sembra voler nascondere la mancanza di una cultura sanitaria pubblica.

La comunità, secondo Aristotele, non è definita da un luogo, da un ambito geografico o da una struttura (CdC) ma dal fatto che un gruppo di cittadini siano in grado di garantire una buona vita alle persone di un territorio affinché possano sviluppare una esistenza indipendente e autonoma pur all’interno di una reciproca solidarietà così che concretizzi una vita degna di essere vissuta. La comunità (contenuta nei numeri) è prioritaria rispetto ad un individuo anche se, proprio grazie alla solidarietà degli altri, lo stesso soggetto singolo può sviluppare la propria individualità.

Infatti la persona non solo è un vivente politico-sociale-comunitario ma è anche l’unico essere che ha il logos cioè il linguaggio-ragionamento “prudente/calcolante” ed è in grado, con la ragione e il dialogo, di stabilire, ad esempio, forme di assistenza misurata (es.: da parte dei mmg) e proporzionata per quella comunità affinché non prevalgono logiche individualistiche dannose (es.: un consumismo amministrativo).
Ciò che dà valore “unico” ad una comunità raccolta intorno ai propri mmg di riferimento sta nel fatto che, in questo modo, è possibile soddisfare i bisogni dei suoi componenti seguendo il criterio di “finitezza” a sua volta sostenuto dal tessuto solidale. Da questo punto di vista potrebbe apparire irragionevole e solo economicistico mettere in campo un costoso meccanismo di appropriatezza prescrittiva. Chi se non il mmg può aiutare le persone, che lo hanno scelto fiduciariamente, ad inserire nel loro bagaglio culturale il concetto del limite, della misura, financo che la vita ha un termine? Non saranno certo le istituzioni o le alte dirigenze o le amministrazioni o i protocolli o gli algoritmi a poter comunicare empaticamente tali riflessioni.

Contrariamente alcuni recenti movimenti filosofici, immersi in una realtà neoliberista, tendono a promuovere una vita illimitata e senza termine (trans umanesimo e post umanesimo). Così la società consumistica opterà per un soddisfacimento dei desideri individuali con quella smania di illimitatezza che corrisponde alla massima distanza dalla ragione. Questa cultura che penetra anche le istituzioni e i gruppi culturali satelliti porta alla disgregazione del tessuto comunitario e della sua tenuta etica. La mancanza di limite riproduce sempre lo stesso ciclo di produzione consumistica tanto da arrivare ad utilizzare i cittadini (volontari, professionisti, assistiti) come semplici strumenti operativi.

La comunità giusta è quella che non è troppo grande né troppo piccola, non ha troppi abitanti né troppo pochi, non conta persone troppo ricche né troppo povere. E’ una popolazione che necessita quindi di un auto-controllo autonomo interno grazie ad individualità specifiche solidali (es.: mmg fiduciari) e all’alternanza tra il governare e l’essere governati perché, questo, è il vero abitare la democrazia.

Tommaso (che avrebbe volentieri voluto battezzare Aristotele), sostiene che, nel caso vi fosse pericolo per la comunità e il bene comune, sarebbe lecita la “perturbatio” cioè la ribellione in quanto significherebbe disubbidire ad una tirannide e obbedire a Dio.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

08 aprile 2024
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Un attimo, per riprendere fiato dal soffocante pensiero unico

Gentile Direttore,

le note controriforme e le ingarbugliate innovazioni, pur consacrate dal soffocante pensiero unico, mostrano già l’inconsistenza a causa di fondamenta costruite sulla sabbia. Alcuni ricorderanno i contenuti del art. 1 della legge Balduzzi (2012) dove si declinavano le funzioni delle AFT (Aggregazioni Funzionali Territoriali). Le regioni hanno poi generato caos inventando numerosi acronimi per marcare il loro territorio. Il DM 77 è una legge che sembra fatta su misura per creare confusione. Fa eco il recente ACN.

Il PNRR sollecita espressamente l’attuazione dell’assistenza di prossimità ma considera le CdC e gli Ospedali di Comunità (tutt’altro che di Comunità) come esempi e non come modelli unici. Ex cathedra si ammette infatti che le CdC (prevalentemente “spoke”) non siano adeguate ai reali bisogni delle popolazioni e dei professionisti.

Nonostante l’inesorabile penetrazione del privato nel SSN, le alte dirigenze (Regionali e Aziendali) si sono cullate nella certezza della loro perenne esistenza e del fatto che alcuni servizi non sarebbero mai stati appetibili al privato-privato e il ruolo di dominio istituzionale, in quei settori, non sarebbe mai stato conteso. In pochi mesi si sono moltiplicati PS, Sert, pronti interventi di base h/24, rianimazioni… il tutto rigorosamente privato-privato!

Alcuni commentatori hanno osservato che le gerarchie di potere (“sappiamo cosa è meglio” per voi) potrebbero essere le prime a non volere mai nessuna vera innovazione proprio perché sarebbe più conveniente, per loro, un orientamento sulla malattia piuttosto che sul cittadino. Così appaiono come “grande finzione” anche le CdC conformi alle contraddizioni contro-riformistiche e ai consociativismi. Questi ultimi probabilmente non più attribuibili a convergenze storiche (es.: istituzioni e sindacato) ma a solide collaborazioni tra istituzioni e/o gruppi che condividono interessi particolari e comuni.

L’urgenza riformatrice desiderata da cittadini e professionisti è contrastata dalla smisurata quantità di tempo gestionale a disposizione delle alte amministrazioni dove il neoliberalismo ed il consumismo sembrano essere proprio di casa.

Il potere di Regioni e Aziende è talmente possente che non c’è spazio per elaborazioni che non siano più che allineate in quanto ciò che una regione delibera, in ambito sanitario, diventa legge. Le Aziende Locali, poi, applicano il mandato avendo come principali o unici referenti politici e datori di lavoro gli Assessorati Regionali.

Si ricorderà l’enorme pressione comunicativa messa in atto nel periodo in cui gli apparati avevano deciso di chiudere i piccoli ospedali territoriali spesso presidi “gioiello” e vere scuole di integrazione con il territorio. Anche allora (USL) i referenti erano politici ma facilmente raggiungibili ed individuabili. I piccoli ospedali sono stati chiusi con la promessa di istituire presidi territoriali “equivalenti”. Ciò poteva sembrare, in un primo momento, accettabile per professionisti e cittadini ma poi è stata varata la controriforma sulle CdS del 2016.

Il Covid ha ricordato tutto ciò ma, al momento, il sistema è immodificabile a causa della legislazione vigente.

Una riflessione a parte merita la questione “comunità”. Non vi sono dubbi che il senso di appartenenza e i legami sociali siano stati fortemente provati dalla globalizzazione finanziaria. Dal punto di vista sociologico-sanitario, per la prima volta, si verifica un elemento inedito. Si può osservare la compresenza, in ambito occupazionale, di nette stratificazioni generazionali che manifestano dirompenti differenze culturali.

Nello specifico i giovani colleghi che intraprendono, oggi, la professione di mmg si trovano a confrontarsi in modo nuovo con istituzioni a struttura medioevale e con le comunità di riferimento (assistiti coetanei ma anche “silenti” o “boomer” che li hanno scelti fiduciariamente). Cosa ricercheranno nei giovani medici questi cittadini? Come considereranno i mmg il loro inquadramento professionale-giuridico, la loro autonomia, l’essere all’interno di una sempre più diffusa complessità, l’aumento delle tensioni sociali e le smisurate ansie individuali di molti assistiti?

Forse la generazione precedente dei medici di famiglia non si è preoccupata di organizzare una adeguata trasmissibilità esperienziale ai giovani colleghi così, è possibile, che gli stessi nuovi mmg non si siano particolarmente interessati a questo aspetto. Non di meno la professione sarà coinvolta nel far fronte ad alcuni strati della popolazione che manifesterà sindromi da sradicamento culturale e che frequenteranno l’ambulatorio del medico di base.

Considerato questo stato di cose i giovani colleghi potrebbero rappresentare un valore aggiunto in grado di comporre una sintesi tra professione e società. Dal punto di vista antropologico si può sostenere che i giovani professionisti abbiano un “cervello” nuovo, una professionalità e una intellettualità immersa nella marea tecnologica in grado di far fronte alle criticità sanitarie burocratiche-amministrative e di affermare una autonomia professionale coerente con il paradigma della complessità.

Questa potrebbe essere la vera “casa” abitata da giovani dottoresse (maggioranza in ambito delle cure primarie) e dottori abili nel costruire i principi per una riforma strutturale nazionale che necessita, per forza di cose, di una partecipazione bipartisan se si desidera finalmente superare tutte le assunzioni controriformiste. Tra queste vanno ricomprese anche gli improbabili modelli esteri o esotici molto pubblicizzati (come nella più classica delle promozioni neo-liberali) dimenticando, colpevolmente, la presenza, nel nostro paese, di questa nuova generazione di medici, inimmaginabile fino a poco tempo fa.

Non a caso l’ultima fatica del Prof. Ivan Cavicchi (“Medici vs Cittadini”, Castelvecchi, 2024) affronta il tema della ridefinizione giuridica del medico ma immette anche, all’interno del dibattito e della riflessione, la questione della complessità come nuovo “archè” che non può più essere tralasciato (Byung-Chul Han, “La crisi della narrazione”, Einaudi, 2024) se si desidera rappresentare la “questione medica” e una cultura assistenziale coerente con l’attualità post-moderna.

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

25 marzo 2024

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Medicina Territoriale

La professione medica è ancora in grado di riprendere in mano il proprio destino

Gentile Direttore,

ancora una volta Ivan Cavicchi con il suo nuovo instant book (Medico vs cittadini, un conflitto da risolvere, Castelvecchi, 2024) ha regalato una profonda riflessione che parte dalla controversia della “colpa professionale medica” ed arriva ad affrontare un tema filosofico, etico, sociale semplicemente enorme.

Il professore e collega ha pensato di giocare d’anticipo senza aspettare la conclusione dei lavori della Commissione d’Ippolito costituita, ad hoc, dal Ministero di Giustizia con l’obiettivo di segnalare possibili errori e contraddizioni che potrebbero, se non rivisti, rendere la categoria e i cittadini “prigionieri di leggi sbagliate” difficilmente poi modificabili.

Già il titolo del libro pone un tema etico complesso: tutti i medici sono cittadini ma non tutti i cittadini sono medici: in una situazione di questo tipo chi riveste un ruolo sociale e professionale particolare? Come si può costruire o formare, oggi, una relazione pattizia medici e cittadini? Chi può svolgere la funzione educativa/pedagogica e quella di testimone del “contratto sociale”? Chi riconosce chi? Come può essere costruito un adeguato e contestuale rispetto reciproco?

Sono quindi in gioco “un mondo” di valori essenziali. Sia sufficiente, in questa sede, pensare a cosa capita quotidianamente nella realtà assistenziale: nelle cure palliative portate al letto del malato, al suo domicilio dal mmg che, proprio per il contratto sociale “immateriale”, l’assistito “elegge” come giusto, libero, veritiero, valido e in grado di assisterlo negli ultimi momenti. La situazione è incommensurabilmente diversa da un banale contratto d’opera, se non altro, perché si ha a che fare con il mistero della vita e della sua conclusione. Ha poca importanza, alla fine, la tecnologia o le altre competenze scientifiche. Ciò che è veramente richiesto è una avvolgente abilità relazionale (infatti il mmg è considerato il palliativista di riferimento per il proprio assistito).

Forse una attualizzazione degli storici criteri relativi alla “colpa” professionale (imperizia, imprudenza, negligenza) potrebbero essere più che sufficienti per poter archiviare o attivare le sanzioni, in tempi brevissimi. L’errore umano è sempre possibile a fronte di una realtà ancora sconosciuta nella sua essenza (la vita), che alcuni considerano sacra, e forse è anche corretto che chi deve prendere decisioni tenga conto di questo aspetto.

Non è compito della Commissione Ministeriale indicare le strategie per ridurre la conflittualità però, la stessa Commissione, potrebbe avventurarsi in qualche sapiente suggerimento. Se la problematica di fondo è la formazione generale dei professionisti affinché siano in grado di leggere le modifiche sociali e di ridurre di conseguenza i contrasti, quante cose devono cambiare per impostare ciò che sarebbe necessario? Che valore culturale e di maturazione professionale possono apprendere gli studenti di medicina sottoposti, per gli esami, a test scritti pieni di trucchetti e tranelli più che di una vera valutazione della maturità professionale in crescita? Che rapporto possono avere i futuri medici con il sociale o con il sapere se tutto viene ridotto ad un perfido e narcisistico superenalotto?

Siamo certi che non siano ormai fondamentali, durante il corso di laurea, più esami di psicologia, filosofia, etica, sociologia, antropologia, accorpando eventualmente, qualche esame che tende a ripetere ciò che è appena stato fatto al liceo?

Anche le istituzioni locali e regionali, seguite pedissequamente dai loro accoliti, hanno palesato una incapacità culturale assordante. E’ stato fatto di tutto per fare sprofondare la professione così che il rapporto professione-cittadini è diventato di fatto inagibile.

Il riconoscimento reciproco (patto sociale) resta fondamentale se i due “giocatori” in campo (medici e cittadini), non vogliono perdere.

Il tempo che stiamo vivendo potrebbe essere sintetizzato da alcune parole chiave: modernismo, postmodernismo (quarta rivoluzione), trans-umanesimo, post-umanesimo, consumismo, globalizzazione, neoliberalismo. Una bella complessità. Nemmeno il Covid è riuscito a stimolare pratiche di cambiamento radicale. In ogni caso i movimenti filosofici citati e l’inarrestabile avanzamento tecnologico obbligherà la professione a profonde modificazioni che la regressività di DM77, ACN, Regioni e Aziende non sono nemmeno in grado di immaginare (“cinismo dell’incapacità”). La “quarta rivoluzione” se non sarà gestita con intelligenza ed umanità darà valore non tanto ai professionisti ma ai contratti d’opera, ai formulari, alle procedure, agli algoritmi prescrittivi, ai nomenclatori, ai tariffari… ma dove sarà il medico amico sincero e disinteressato nei momenti importanti della vita? Alcune teorizzazioni del post umanesimo ipotizzano la definitiva scomparsa dei dualismi così che in un mondo di cyborg non ci sarà più posto (bisogno) per medici e cittadini e nemmeno per l’umanità.

La medicina generale può ancora diventare un valido strumento per ridurre la conflittualità sociale in ambito sanitario. Infatti nelle piccole comunità, ancora oggi, riesce a dare un senso alle cose fondando l’agire professionale sul contratto sociale “olistico". La scelta fiduciaria favorisce una azione educativa e formativa che permette di far fronte al dott. Google, ai robot, ai totem, all’assalto dei “malatisti” esperti in scorciatoie per il PS e per la specialistica/diagnostica.

Anni di discredito da parte delle aziende e delle regioni nei confronti delle competenze diagnostiche, terapeutiche, riabilitative dei mmg non poteva che portare tutti al punto in cui ci si trova. Il relativismo e l’economicismo hanno desertificato l’ambito dei valori ma il medico, se vuole, ha la sensibilità per ritornare a riconoscere il dolore umano (e il proprio) e ad ascoltare la sofferenza (che è l’elaborazione mentale del dolore). Questo anche se la società è imbibita di ansia, non riesce più a rallentare, l’amigdala è iperfunzionante mentre la corteccia prefrontale, razionale, è inibita. Le persone non sono più abituate ad affrontare certi temi che la tradizione aveva comunque inserito e mantenuto anche nel periodo della modernità e della postmodernità (il fine vita, la malattia, il dolore, la sofferenza, l’ansia). Il medico è ancora in grado di riprendere in mano il proprio destino e quello della professione perché la cura e il prendersi cura non rientrano solo nei diritti politici ma è l’espressione di una questione ontologica (medicina scienza coraggiosa e impareggiabile).

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

06 marzo 2024

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Dente di leone

I “fondamentali” e l’Assistenza Territoriale di Base

Gentile Direttore,
un paradigma, secondo la filosofia della scienza, corrisponde ad una “matrice disciplinare” stabile nel tempo e condivisa all’interno di una vasta comunità scientifica che studia quella parte della conoscenza. Dal 1946 l’OMS ha adottato il modello Bio Psico Sociale (BPS) come paradigma di riferimento per l’approccio alla complessità della persona con particolare attenzione alla sua salute. Oggi il modello ha quasi 80 anni è e pare essere tutt’ora saldo anche se nel tempo ha affrontato numerose declinazioni.

Il tema della integrazione tra le sue componenti (oggi più correttamente si dovrebbe utilizzare il termine co-operazione) è così essenziale che qualsiasi intervento che si dovesse concentrare su uno solo dei fattori riportati nel paradigma inevitabilmente produrrebbe effetti inadeguati sia concettuali che operativi. E’ quindi auspicabile una costruttiva co-operazione tra le specifiche dimensioni sociali (cultura, spiritualità, aspetti esistenziali), psicologiche e professionali (albero delle competenze costitutive Wonca per la Medicina Generale di base 2011-2012-2023).

Alcune premesse risultano quindi inevitabilmente fondamentali per impostare argomentazioni relative ad una riforma del SSN e delle Cure Primarie al fine di proteggere il dibattito da dissertazioni che già in origine contengano contraddizioni foriere di derive di convenienza e di interessi parziali.

L’approfondimento intellettuale e scientifico deve poter proseguire nonostante che normative, accordi, strutture organizzative, processi decisionali attualmente dominanti rappresentino una vera “fiera delle incoerenze” e una conseguente negazione del paradigma BPS.

Qualche esempio tra i tanti:
• la modifica della situazione che riguarda il Titolo V non può avvenire se non ci si occupa di una riforma del SSN e di quella parte della Carta Costituzionale;

• non è coerente dichiarare che si considera necessario riformare l’attuale normativa che guida il Titolo V e nello stesso tempo sostenere il potenziamento dell’aziendalizzazione delle AUSL e delle sovrastrutture territoriali;

• la mitizzazione normativa della “governace” contenuta in numerosi elaborati istituzionali e laici non corrisponde al sentire di professionisti e cittadini;

• il CCM (Chronic Care Model) è un emblematico esempio di modello “esotico” che non riesce ad aderire pienamente al Paradigma BPS in quanto le numerose criticità evidenziate offrono una plastica prevalenza della dimensione “bio” su altre componenti del modello ( epidemiologia, demografia, frammentazione informativa, devastazione delle forme organizzative inerenti la continuità assistenziale e la continuità dell’assistenza, presa in carico difformi, scarsi effetti positivi su mortalità, accessi al Pronto Soccorso e ospedalizzazione);

• è velleitario pensare ad un coinvolgimento nel processo decisionale dei professionisti territoriali (titolari di responsabilità differenti) e dei cittadini se non si “scaravolta” la piramide gerarchica/oligarchica dando un ruolo vincolante alle comunità ristrette e ai loro professionisti;

• può sommessamente essere ricordato che dal punto di vista “economico” (oggi motore immobile di ogni valore relazionale) i mmg, oppressi dal “consumismo” normativo aziendale non beneficiano di tutele, non ottengono tredicesime e nemmeno TFR;

• se la medicina territoriale (servizi e Cure Primarie) mantiene una certa scarsa attrattività (per ora) da parte del privato forse potrebbe diventare la pietra d’angolo per costruire un nuovo ed esplicito servizio sanitario pubblico, accessibile, universale e gratuito;

• gli attuali decisori dei destini del SSN dopo anni di egemonia prima o poi dovranno lasciare i ruoli decisionali ma cosa resterà in mano ai cittadini e ai professionisti? Forse numerosi siti di interesse archeologico (rovine)?

Può esistere un fondamentale epistemologico acclarato da cui partire nell’elaborazione intellettuale per una riforma del SSN ed in particolare delle Cure Primarie che possa avere concrete ricadute sui territori e sulle comunità? Le conseguenze del DM 77, dell’imminente ACN, del frettoloso, confuso e discriminante piano di riordino delle cure territoriali apparso con il PNRR (Case della Comunità, ospedali di Comunità, Distretti, CAU…) autorizzano un pensiero sfavorevole.

Questo capita perché è assente la cultura della complessità quando si pensa di gestire il territorio. Tralasciando in questa sede i noti fallimenti programmatori, pare non sia possibile ragionare di auto-organizzazione e di auto-formazione pur essendo queste caratteristiche tipiche dei sistemi complessi (quasi un marchio di fabbrica) e quindi perfettamente applicabili ai territori. In natura l’auto-organizzazione emerge come fenomeno bottom-up cioè a piramide gerarchica annullata o rovesciata. Le istituzioni continuano però a non volere accettare questa sfida o questa sperimentazione radicale. Molto presto sarà il privato ad accorgersi che questi valori potrebbero essere produttivi e molto remunerativi. Infatti i sistemi complessi presentano proprietà omeostatiche che evidenziano capacità auto-organizzative e auto-formative (come dimostrato dai comportamenti organizzativi liberi, diagnostici e terapeutici di molti mmg che, autonomamente, in periodo covid sono riusciti a ridurre o annullare i ricoveri seguendo scrupolosamente gli assistiti, senza correre rischi ma basandosi su una propria cultura/formazione inerente processi diagnostici e sistemi terapeutici per altro ostacolati da alcuni protocolli aziendali).

Le formiche, gli sciami, i fringuelli, i pesci, gli stormi, i moscerini, le cellule, le molecole non hanno sistemi di predominio gerarchici o oligarchici. I leader sono assolutamente fiduciari o di servizio (es.: ape regina) o possono cambiare in relazione alle contingenze. È l’insieme che presenta le caratteristiche specifiche in grado di adattarsi, autoregolarsi, innovarsi in modo non prevedibile linearmente.

Il consumismo sanitario e quindi le spese di settore non riguardano tanto gli esami, i farmaci, i ricoveri, il welfare fai da te ma l’aspetto cognitivo dei soggetti e il significato che questi danno alla vita. Si può e si deve approfondire ogni aspetto della vita ma deve essere molto chiaro che non si potrà mai possederla del tutto.

Non si scappa, per non creare aspettative irrazionali c’è solo una strada, per nulla semplice, da percorrere (molto impegnativa per chi svolgerà ruoli di leadership responsabile e competente): è quella di un patto assolutamente fiduciario tra cittadini e professionisti territoriali in grado di recuperare una fiducia e forse una nuova “affabilità servizievole” nei confronti di possibili stili di vita umani, solidali, compossibili, liberi da preconcetti relativi alla vita serenamente consapevoli che anch’essa ha un suo traguardo incommensurabile.

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

18 dicembre 2023
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case della salute

La gerarchia è ineluttabile?

31 LUG - Gentile Direttore,
è nozione diffusa che il nostro sistema democratico sia di tipo rappresentativo. Non è una democrazia diretta. Per temperare una certa incompiutezza del sistema rappresentativo l’organizzazione politica/sociale prevede l’esistenza di molti enti finalizzati a mitigare l’inevitabile distacco che si crea tra cittadini e istituzioni (es.: corpi intermedi e organi sussidiari) affinché questi rappresentino nel modo il più diretto possibile le esigenze popolari. Questo processo acquista un valore particolare in sanità.

Non si può dire che il tema “partecipazione” sia stato realizzato se molti cittadini non conoscono (fatto salvo per gli addetti ai lavori) cosa significhi commissariamento o sub-commissariamento e per quali motivi vengano attivati. Oscure per la maggior parte delle persone sono le definizioni e le funzioni dei Comitati Consultivi Misti e delle Conferenze Socio Sanitarie Territoriali o dei Piani di Zona. A volte il turbinio degli avvicendamenti intra-regionali tra componenti delle alte e medie dirigenze non permettono nemmeno agli addetti di avere interlocutori.

L’esaustiva recente indagine di D. Caldirola (Welfare comunitario o Casa della Comunità: dal PNRR alla riforma dell’Assistenza Sanitaria Territoriale, 2022) non rimuove infine le “antinomie” più volte rappresentate sulle colonne di QS.

Un Welfare di Comunità disegnato così come è raffigurato dai recenti decreti e dai vari documenti non è un vero Welfare di Comunità, infatti il processo decisionale autonomo a livello territoriale in favore di professionisti e cittadini resta un esercizio manierato senza reali innovazioni strutturali; incombe quasi minaccioso su ogni ipotesi di riordino l’idea della assoluta necessità del Distretto come se fosse un mantra intoccabile; i consorzi, molto più comunitari sia dal punto di vista geografico che relazionale e politico, sono inconfessabili.

Il tema del Welfare di Comunità, le traversie del PNRR, la complessità, la gerarchia, la governance, il volontariato e l’auto-organizzazione nelle Cure Primarie possono rivelare alcuni elementi in comune.

Il volontariato.
L’enfasi post Covid mostrata nei confronti del volontariato sembra ora essersi convintamente incanalata verso un ruolo che vede l’associazionismo civile come soggetto “conveniente” per possibili esternalizzazioni dell’offerta sanitaria al massimo ribasso possibile se non alla gratuità. Tuttavia il coinvolgimento del Terzo Settore avviene, nella maggior parte dei casi, rigorosamente “ex-post” secondo la più classica delle interpretazioni aziendali di governance (altra formula magica) a cui si vorrebbe dare un significato opposto a ciò che è nella realtà delle cose cioè un governo monocratico/oligarchico e verticistico.

Cure Primarie.
E’ eclatante come si perseveri (diabolicamente) nel calcolare la medicina di base come baluardo per gli accessi al PS e per i ricoveri impropri quando questo effetto dovrebbe essere un conseguenza secondaria ad una assistenza primaria che, secondo quanto definito da Wonca (2011-2012-2022), venga esercitata secondo caratteristiche specifiche proprie.

Auto-organizzazione.
Tra le varie ipotesi di riforma l’autonoma organizzazione di professionisti “autori” all’interno di comunità “contenute” (mai superiori ai 30.000 abitanti) può rappresentare uno “strumento chiave” per gestire un sistema complesso come è quello della salute (L’auto-organizzazione quale strumento di gestione della complessità, De Toni, 2021).

Complessità.
Lo stesso E. Morin (2005) ha sostenuto che, in un sistema complesso, le azioni alla fine sfuggono alle volontà di chi le ha generate a causa del meccanismo di autoregolazione o feedback (retroazione) così come avviene anche nelle reazioni biologiche o cellulari (catabolismo, anabolisismo, entropia, entalpia). Il principio della retroazione è fondamentale per comprendere la complessità. Quando manca la consapevolezza dei fenomeni correlati alla complessità non potranno mai essere approfondite le conseguenze che le azioni che insistono su questi stessi sistemi possono avere. Ogni azione può modificare l’evoluzione di un sistema complesso con esiti assolutamente inaspettati tanto che è possibile affermare che non esistono spiegazioni definitive ma solo contestuali.

Le strategie storicamente utilizzate dalle Aziende Sanitarie vengono guidate dagli esiti finali attesi perché l’assistenza di base viene considerata come un sistema semplice e lineare (appropriatezza prescrittiva e di diagnostica strumentale, riduzione degli accessi al PS e dei ricoveri definiti inappropriati, Assistenza Domiciliare Integrata/Programmata ecc.). Se invece l’assistenza viene pensata come un sistema complesso la strategia è ispirata dalle condizioni e dal contesto senza che si possa prevedere o attendere un esito ex-ante.
L’organizzazione gerarchica piramidale monocratica/oligarchica è assolutamente inadeguata per far fronte ai sistemi complessi.

Conclusione (leadership, presidio di riferimento, gerarchia, periferia)
Le Cure Primarie Territoriali richiedono la conoscenza del funzionamento dei sistemi complessi. La strategia organizzativa più adatta sembra essere quella dell’auto-organizzazione territoriale (patti tra professionisti e cittadini/assistiti) senza la presenza di controlli o modelli gerarchici centralizzati ( Ausl, Distretti, Assessorati).

Parafrasando il fisico premio Nobel Philip Warren Anderson (1977) si potrebbe sostenere che l’auto-organizzazione territoriale rappresenta il futuro più affascinante per un SSN in ragione della sua infinita varietà! L’autonomia organizzativa/gestionale richiede da parte dei professionisti impegno, innovazioni, intelligenza anche per esercitare una “self-leadership” vocazionale (Chris Lowney 2005) dove la gestione della responsabilità cliniche, relazionali e sociali crea benessere nei professionisti e nei cittadini. In questo modo si crea un “presidio” contestuale di riferimento per la comunità. Un vero Welfare di Comunità. La cultura del controllo centralizzato (es.: dipendenza dei mmg) non potrà mai risolvere le attuali criticità che aggrediscono le Cure Primarie perché ciò che è necessario è la comprensione della complessità e la soluzione è data dall’autonomia e dall’auto-organizzazione dei professionisti a livello territoriale. La gerarchia non è ineluttabile. Al centro non si risolve. Il futuro è in periferia (De Toni 2021).

Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV

31 luglio 2023
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Medicina Territoriale

Negli ambulatori arriva il facilitatore: un aiuto in più

L’associazione di volontariato «Comunità Solidale Parma» (iscritta al Runts, Registro unitario nazionale del terzo settore) ha da tempo attivato l’iniziativa del «facilitatore» introdotto all’interno dell’ambulatorio San Moderanno di via Trieste 108/A, inserito nel progetto «Non più soli» promosso dalla rete Parmawelfare e organizzato in collaborazione con il Punto di comunità San Leonardo.

Il facilitatore accoglie e aiuta le persone che si recano in ambulatorio ad entrare in contatto, nel più breve tempo possibile, con le segreterie o con l’infermiera e si preoccupa di fare in modo che nessuna persona che entri in ambulatorio si senta ignorato nel momento dell’attesa nell’area apposita determinata dalle note normative contro l’epidemia.

Dal mese di novembre di quest'anno è iniziata una nuova funzione di «formazione» dedicata a volontari che desiderano apprendere le modalità operative pratiche del ruolo di «facilitatore di sala d’aspetto di un ambulatorio» al fine di preparare altre persone volontarie in grado di dare supporto alle prossime erigende Case della comunità o Case della salute esistenti o Medicine di gruppo già operative.

Dal mese di novembre quindi nuove volontarie/i vengono affiancati alle facilitatrici già esperte dell’Ambulatorio San Moderanno, coordinate delle segretarie dell’Ambulatorio e sotto la responsabilità dei medici della medicina di gruppo affinché possano diventare competenti nell’attività di facilitatrici/facilitatori.

Tali figure si occupano di instaurare subito una relazione con la persona che entra in ambulatorio, permettono alle segretarie di dedicarsi con più tranquillità alle attività prettamente amministrative (telefono, computer, mail, wapp, videochiamate, messaggi vocali ecc.) Anche l’infermiera potrà così occuparsi delle attività sanitarie in quanto il volontario facilitatore sarà in grado di comunicare in tempo reale informazioni utili ai pazienti (ad esempio, ricette già redatte oppure richieste di prescrizioni, orario e giorni dedicati alle vaccinazioni antiinfluenzali; momento più adatto per accedere alle prenotazioni Cup o agli esami ematici; varie informative specifiche).

Il bacino di utenza dell’ambulatorio si aggira attualmente intorno ai 12.000 assistiti (il quartiere che nel suo complesso può contare 30.000 abitanti). L’afflusso di pazienti nelle 12 ore di apertura è continuo. L’obiettivo dell’associazione di volontariato Comunità solidale Parma, soprattutto in situazione pandemica tutt’ora presente, è quello di permettere alla medicina di gruppo San Moderanno di organizzare il servizio alla popolazione in modo efficace, accogliente e sereno nella speranza che si possa così accrescere il gradimento degli assistiti. Una delle missioni statutarie dell’organizzazione di volontariato Comunità solidale Parma è quello di considerare la medicina generale territoriale come un bene comune da appoggiare e sostenere a vantaggio di tutto il quartiere San Leonardo e il territorio a nord della ferrovia.

L’obbiettivo dell’azione «Non- piùsoli» è quello di trovare modalità innovative per supportare i cittadini ed in particolare quelli che si trovano in una situazione di fragilità.

Il periodo Covid ha più volte evidenziato come le relazioni tra servizi sanitari oberati di mansioni e gli assistiti possono creare incomprensioni che potrebbero sfociare anche in veri conflitti. In questo senso l’attività del facilitatore o della facilitatrice può svolgere un ruolo molto importante nel promuovere la comprensione reciproca e comportamenti più adattivi e gratificanti in quanto i volontari possono intervenire per risolvere i piccoli problemi che si creano quando le attese si prolungano nel tempo o quando i soggetti hanno l’impressione di non essere visti o considerati. Ogni situazione relazionale può fare emergere debolezze o criticità automatiche e inconsapevoli che possono influire negativamente sugli ambienti lavorativi soprattutto quando si opera in strutture di «aiuto» ma la «facilitazione» si propone proprio di essere una nuova forma di aiuto al fine di superare le varie difficoltà ricordate e di sostenere e promuovere la medicina generale (di base) dei nostri quartieri che rappresenta per tutti noi un bene prezioso.

L’attenzione che la volontaria facilitatrice/facilitatore rivolge all’assistito diventa anche un modello positivo di reciprocazione.

 

Gazzetta di Parma, sabato 26 novembre 2022


Patto contratto sanità

L’isola che non c’è

L’isola che non c’è

21 OTT -

Gentile Direttore,
l’encomiabile contributo del collega Luigi Di Candido, pur non analizzando i temi generali che possono essere alla base di una riforma radicale della sanità soprattutto territoriale pone comunque una consistente pietra angolare alle fondamenta per ristrutturare l’intero SSN.

Nel  passato pare che qualche AUSL,  nella ridondante  stagione dell’aziendalizzazione generata dalla nota modifica del Titolo V, abbia addirittura tentato di iscriversi all’Unione Industriali del territorio di appartenenza ma questa avventura  sembra non essere andata a buon fine.  In effetti, osservando i numeri e anche la logistica di quelle organizzazioni che oggigiorno, in modo barocco, continuano ad essere definite aziende sanitarie hanno migliaia di dipendenti e sono tra i pochissimi enti che hanno il vantaggio di trovarsi all’interno dell’abitato delle nostre città.

Una datata ricerca sul clima organizzativo ed il benessere aziendale (“I medici bocciano i dirigenti”, il Sole 24OreSanità, 1-7 aprile 2008) conferma, in tempi non sospetti, le condizioni snocciolate dalle “ipotesi” percentuali  del collega  Di Candido che conclude il suo intervento chiedendosi  se queste istituzioni sono o non sono aziende. La domanda è palesemente retorica e la risposta è solo una.  Tuttavia le normative attuali, la riforma del titolo V e la creazione di numerosi Servizi Sanitari Regionali non permettono nessun cambiamento ma solo toppe che tradizionalmente sono sempre peggio del buco.

Il collega cita il management, l’aziendalismo, il linguaggio economicistico e la  governance  termini  tanto cari ai proseliti che  difendono questa cultura come depositaria  del vero ( lean, six sigma, total quality System, Value based procurement, H.T.A.)  a cui andrebbero aggiunti: policy maker, medicina on demand (che volgarità!) che deve assolutamente e completamente essere sostituita con la medicina di iniziativa,  AFT (che si rifanno alla datata e ancora vigente Legge Balduzzi), big data, back office, CRM (Customer Relation Management), patient joumey, CdC ( Case della Comunità o della Salute) e OSCO ( ospedali di comunità in contraddizione con la loro stessa definizione e che dovrebbero essere indicati come Ospedali di Distretto secondo quanto emerge dal DM77), service design, consultant, digital first, COT, UCA…

Inevitabilmente sarà necessario imparare, come già fatto nel passato, questo “relativamente nuovo” linguaggio (in attesa che qualcosa d’altro, ma di radicale, possa accadere) proprio perché le così dette “nuove” normative ( ACN, DM77, Metaprogetto, Circolare della Conferenza Stato-Regioni…) promettono una  “stagione  interessante e generativa per il top e middle management delle regioni e delle aziende” che però,  come dimostrato dall’articolo del collega… non esistono.  Nasce spontaneo il quesito di cosa “prometteranno” le innovazioni  lessicali pesantemente controriformiste  ai cittadini e ai professionisti. Non conoscere la terminologia  burocratico “trendy” potrebbe creare frustrazione ed isolamento nei sistemi di decisione apparentemente molto complessi a causa di un continuo “rifornimento”  per i piani alti di parole magiche inedite. Risalta sotto tutti i suoi aspetti una contraddizione paradossale non facilmente risolvibile: convivere ed operare (da anni ed anni) con enti “inesistenti”  significa, come ripete da tanto tempo un nostro notissimo “autore”,  generare contraddizioni su contraddizioni in sanità  fenomeno che inevitabilmente crea una regressione professionale tale che probabilmente fa  toccare  ormai il suo temuto punto di non ritorno…

Una possibile “quasi riforma radicale” per le PHC (Primary Health Care) cioè per le cure territoriali  è stata presentata al convegno/evento “Sopravvivere per vivere: cosa abbiamo imparato dall’esperienza Covid. Prospettive future” celebrato il 24 settembre 2022 a Verona e di cui ha parlato anche QS il 3 ottobre scorso.

La “quasi riforma radicale” descritta  tiene conto di  tre elementi fondamentali pur ostacolata  delle normative vigenti e  legislativamente “cogenti” (Titolo V, Aziendalizzazione, SSR, Conferenza Stato-regioni, sanità amministrata …):

  • una posizione di discontinuità alternativa per le  Alte Dirigenze Ausl e gli Assessorati Regionali  con  funzioni di garanzia o di authority  dei valori fondamentali del SSN;
  • il ritorno ad un SSN unico ed unitario con una posizione di convenzionamento in libera professione  e libera scelta per  i mmg;
  • una completa autonomia  periferica territoriale  anche  gestionale ed economica dell’insieme degli attori socio-sanitari che operano sul territorio ( medici, infermieri, specialisti,  servizi di riabilitazione psico-neuro-motori innovativi, servizi territoriali, servizi sociali, servizi educativi,  servizi socio sanitari, componenti del terzo settore, imprese generatrici..),  dei percorsi collegati anche con i servizi ospedalieri, dell’intero processo decisionale e del governo clinico agevolati da una guida “di servizio” denominata provvisoriamente “collegio del territorio” che comprende eventualmente un  ricollocamento di risorse umane di AUSL e Assessorati nelle varie aggregazioni territoriali di AFT o di NCP.

Bruno Agnetti

CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)
FISMU (Federazione Italiana Sindacale Medici Uniti), Regione Emilia Romagna


case della salute

L’irresistibile ascesa della medicina amministrata

Gentile Direttore,
alcuni articoli gestionali/organizzativi pubblicati in questo periodo su QdS  riconfermano l’ineluttabilità  di una medicina, soprattutto di base, fondamentalmente  amministrata (ACN, Comunicazione della Conferenza Stato-Regioni, DM77, Metaprogetto). Nello stesso tempo non è dato sapere, eccezion fatta  per l’ACN, se vi sia stato un preliminare confronto tra le parti prima della loro pubblicazione.

La frenesia di mettere a disposizione nel più breve tempo possibile un impianto strutturale a favore del PNRR ha creato, inevitabilmente, importanti difficoltà di metodo e di merito aggravate dalle note contingenze globali.

Il primo collo di bottiglia è rappresentato dalla modifica del titolo V che giustifica la prevedibilità ex-cathedra delle autonome  azioni regionali.  Operativamente, culturalmente e cognitivamente coloro che gestiscono il potere decisionale sanitario sono sempre le stesse persone da decine di anni.

Riforme radicali, innovazioni, strategie assistenziali territoriali tarate sul lungo-medio periodo che non esitino solo in conto capitale ma che sappiano dare un senso ed una visione all’essenza del curare e del prendersi cura restano evanescenti nei testi calati dall’alto che appaiono troppo lontani dalla professione agita quotidianamente.

Sorgono di conseguenza numerose criticità.

Nonostante i lunghi decenni di formazione che hanno visto come discenti proprio i componenti delle Alte Dirigenze Ausl, oggi si richiede alle stesse dirigenze di applicare  una abilità che non sono riuscite ad esperire in tanti anni di apprendimento. Manca quella giustizia e quella prudenza che alla fine sa scegliere (superando i tempi ed i legacci burocratici)  percorsi giusti e utili per gli assistiti e per i professionisti.  E’ lecito dubitare che tutta questa formazione possa essere servita a poco se non a rispondere ad una esigenza/bisogno  regionale economicistico e non assistenziale  che alla fine ha dimostrato  il suo mesto epilogo fallimentare.

Alcuni pensano che la cura o il prendersi cura debba basarsi, per questioni funzionali all’efficienza ed efficacia amministrativa, fondamentalmente  su una “medicina/sanità di iniziativa” e che le persone debbano essere classificate in funzione delle patologie.  In caso di necessità possono così  essere coinvolte  in iniziative create ad hoc  (educazione sanitaria, stili di vita adeguati, controlli periodici). Questa argomentazione può avere qualche senso ma difetta in un elemento fondamentale collegabile all’essenza ontologica della malattia e delle cure che sancisce una vera dipendenza dell’uomo dall’accudimento  che durerà per tutta la vita. Non si  può escludere de facto una  medicina di  “attesa” o di “opportunità”  senza  correre il pericolo di creare  gerarchie  ragionieristiche  avulse da elementi valoriali  sperimentati dalle persone sofferenti accumunate dalla dipendenza  e dalla fragilità insite nell’antropologia. Non saranno certo le strutture in conto capitale a poter affrontare un problema cosi pervasivo e alla fine mai risolutivo.

Forse solo il medico autore, esperto, scelto  liberamente con fiducia ed in grado di costruire un ambiente assistenziale comunitario può affrontare opportunamente la questione. Nell’ambito della  medicina di base, un medico autore e autonomo ha l’opportunità  di raggruppare persone ammalate (non stratificazioni di  casi patologici), procedere poi  con una analisi intelligente e umanitaria delle esigenze e dei bisogni da soddisfare financo sistematicamente in caso di necessità.  Questo compito non può essere affrontato dalle Alte Dirigenze e dalle Istituzioni da queste gestite per motivazioni già ricordate ma soltanto dal mmg, esperto del proprio territorio che co-opera con tutti gli attori socio-sanitari e con i pazienti e che eventualmente  potrebbe usufruire di ulteriori ausili tipo l’affiancamento o il tutoraggio professionalizzante. Il medico di medicina generale sviluppa nel tempo anche una abilità particolare nei sistemi di comunicazione con i propri pazienti e nella interazione  con le associazioni di volontariato e del terzo settore estremamente utili per affrontare la complessità delle singole persone ammalate o dei loro contesti familiari.

Per definizione e secondo la normativa in atto il mmg resta concettualmente, operativamente, fiduciariamente ed esperienzialmente il primo sportello di entrata nel SSN.  Il professionista che ha un rapporto specifico medico-paziente  con il proprio assistito può consigliare percorsi semplici o  complessi in merito alle problematiche emerse dal processo diagnostico.  Questi percorsi trasversali al territorio, ai servizi, al terzo settore  e all’ospedale devono  essere  ben percorribili in tempo reale  e ben riconoscibili.

L’organizzazione territoriale deve quindi essere affidata ai professionisti che operano sul campo quotidianamente come medici “autore”, autonomi,  volontariamente associati  secondo affinità pattuite.  Tutto ciò comporta l’eliminazione degli ambiti territoriali o obbligatorietà di quartiere. Un aggregazione affiatata che si sceglie autonomamente senza limiti di incentivazione o di numero di aderenti  ( compresi gli affiancamenti e i tutoraggi) è in grado di risolvere  problematiche organizzative, logistiche, di governo clinico, di copertura territoriale, di co-operazione  con i servizi, con l’ospedale con il terzo settore.

I bisogni logistici dei professionisti per forza di cose dovrebbero essere, nella maggior parte dei casi, complesse, ampie, gradevoli  e in grado di accogliere molti sanitari. Dovrebbero  contenere direttamente  al loro interno le strutture intermedie, ben inserite nei territori, essere reali punti di riferimento per la popolazione, in grado di poter reperire risorse adeguate ( miste pubblico-privato-terzo settore), ecc. E’ di tutta evidenza che questo sistema organizzativo richiede massima autonomia gestionale delle professionalità territoriali ed in particolare della medicina generale. Alle Alte Dirigenze dovrebbe essere affidato un ruolo alternativo di garanzia relativa ai valori principali del SSN: universalità, equità, accesso alle cure, trasparenza.

Infine una tematica che richiede particolare attenzione e che giustifica l’organizzazione territoriale descritta: il cambio generazionale. In particolare va evidenziato  il cambio di genere dei medici di medicina generale. Le “mediche”  sono in maggioranza e stanno rapidamente popolando la professione di base. E’ necessaria ancor più di prima una riforma che permetta di soddisfare esigenze professionali e personali che possono essere affrontate  solo da gruppi aggregati affiatati e basati su accordi pattizi liberi in grado di  regolare le relazioni tra “dottoresse autrici e autonome”  all’interno di un sistema di welfare di comunità.

Bruno Agnetti

Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS),  FISMU-Emilia Romagna

11 ottobre 2022
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Medicina Territoriale

La tempesta perfetta

 

Quotidiano on linedi informazione sanitariaLunedì 03 OTTOBRE 2022

03 OTT -

Gentile Direttore,l’ambito della medicina del territorio e le cure primarie rappresenta un area ( multiprofessionale ma anche multisettoriale)  dove viene agita una assistenza di  primo livello finalizzata alla prevenzione e  ad una  attività di diagnosi e cura che tenta, tra le numerose attività collegate al prendersi cura, di razionalizzare l’inclinazione degli assistiti ad accessi impropri al PS o alla richiesta di ricoveri.

Non si può non constatare come una tempesta perfetta o quasi si stia abbattendo sul nostro SSN e sull’assistenza territoriale: pandemia (tutt’ora in atto), guerra, crisi energetica ed economica-finanziaria, inflazione, disoccupazione, pensionamenti o dimissioni,  un sistema di globalizzazione che inevitabilmente subirà modifiche da come l’abbiamo conosciuta fino ad ora.

Anche la stagione delle aziende sanitarie, dei distretti, degli assessorati sanitari regionali associati alla modifica del titolo V ha dimostrato il netto fallimento di questo impianto normativo/burocratico/economicistico. Sono stati evidenziati  numerosi errori gestionali sostenuti da mancanza di visione e dalla riproposizione delle stesse contraddizioni note da anni. L’economicismo che risponde al contenimento dei costi alla fine proprio ora si dimostra  non essere in grado di risolvere nulla e ci si trova quindi, dopo anni di cultura economicistica  ad affrontare,  in ambito sanitario territoriale,  l’inflazione, la depressione, i disavanzi, gli sprechi,  i consociativismi, le conseguenze della pandemia.

Una nota riflessione (Einstein) sostiene che non si possono risolvere i problemi con le attitudini cognitive  di coloro che li hanno generati e che tutt’ora elaborano i testi degli ACN, delle normative, delle circolari, dei metaprogetti, dei DM, delle CdS, degli OdC  o dei COT.

Una riforma radicale della sanità ( dell’assistenza e delle cure primarie)  potrebbe essere un buon punto di partenza per generare  innovazioni finalizzate a produrre più salute senza dimenticare come tutto ciò inevitabilmente coinvolge sistemi assistenziali e relazionali molto complessi.

Il dibattito da tempo  in atto sulle varie  ipotesi organizzative territoriali ha preso in considerazione alcune raffigurazioni principali per quanto riguarda la medicina generale:1 - la dipendenza;2 - la sovrapposizione contrattuale con la specialistica ambulatoriale interna SAI;3 - la medicina amministrata (come da ACN, Note della Conferenza Stato-Regione, il DM 77, il Metaprogetto caratterizzati dall’assoluta  invarianza, con documentazioni autoprotettive dello status quo normativo,  tanto distanti dalla realtà dei professionisti e degli assistiti che incrementano oltremodo  le contraddizioni storiche instabili e disfunzionali); 4 - il medico autore/autonomo/leader della comunità.

Le prime 3 ipotesi hanno fatto emergere, nel dibattito, numerosi dubbi e criticità culminate nella disapprovazione della prescrizione calata dall’alto dai decisori pubblici in merito alla medicina amministrata.

La 4 ipotesi è stata quella meno dibattuta dalla comunità professionale (eccezion fatta per i suoi ideatori che hanno diffuso questo tipo di riforma in numerose pubblicazioni ed articoli). La sua applicazione concreta in ambito delle cure primarie è chiaramente alternativa al modello della medicina amministrata ma anche infinitamente meno onerosa economicamente, garantisce una prossimità facilmente realizzabile,  e’ in grado di stimolare il confronto anche  concorrenziale tra le varie AFT per quanto riguarda la  produzione di qualità ed  di innovazione assistenziale.  Con le seguenti diapositive si tenta di illustrare il sistema operativo  territoriale completamente pubblico basato sulla centralità del mmg medico/autore/ autonomo/leader dell’impresa comunitaria (welfare di comunità).

Bruno AgnettiCentro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) FISMU, Regione Emilia-Romagna