Case della Salute e Case della Comunità. Uguali o diverse?
Purtroppo occorre constatare che, al momento, le comunità sono smarrite, frantumate, frullate dalla globalizzazione e dai recenti avvenimenti sanitari ed economici. In questo senso il termine “Casa della Comunità” appare quindi ancor più fuori contesto, instabile e senza reali punti o radici di riferimento.
10 APR -
Il termine “Casa della Salute” (CdS) contiene la specificazione di una funzione o di una attività che, si intuisce, possa essere svolta in quella struttura. Quando invece si parla di “Casa della Comunità” (CdC) il contenuto comunicativo supera l’indicazione logistica e tende a dare come acquisita la presenza di una maggiore complessità.
Bauman ci ricorda come il desiderio di comunità sia molto forte ma richieda una carica generativa naturale e “tacita” proprio per una sua intima problematicità relazionale. Di contro le “comunità” che devono farsi sentire o valere o fanno sfoggio delle loro iniziative si autoeliminano come “comunità” in quanto contraddittorie. Possono essere imprese, gruppi di studio, progetti di scopo, portatori di interessi ma non comunità.
Il DM 77 (2022 e GU n.144) definisce la CdC come struttura socio-sanitaria che entrerà a far parte del SSN: per il momento, quindi, è ancora tutto da vedere...
Il Dgr n.291 del 2010 (78 pagine) della Regione Emilia-Romagna (documento antesignano sulle Case della Salute) definisce la CdS come punto di riferimento certo per i cittadini al quale ci si può rivolgere per trovare una risposta ai propri problemi di salute. E’ un presidio distrettuale a complessità diversificata (CdS piccola-media-grande) e ogni quartiere o territorio avrebbe dovuto avere la propria CdS anche se la vera innovazione era costituita “solo” dalla CdS grande.
SCHEDA RIASSUNTIVA DEI SERVIZI E DELLE FUNZIONI DI UNA CASA DELLA SALUTE GRANDE
Nel 2013 la delibera Regionale della Regione E-R n.117 completava il pregresso DGR n.291/2010 (Modello organizzativo territoriale regionale fondato sulla CdS) prevedendo, almeno nelle CdS “Grandi”, strumentazioni specialistiche e diagnostiche complesse ma anche la presenza di strutture intermedie e di letti osservazionali (termine più corretto del più “discorsivo” ed ambiguo Ospedale di Comunità o OSCO).
Nel 2015 infine le linee di indirizzo regionali sancivano la partecipazione delle comunità e delle associazioni di cittadini che venivano definite “indispensabili” per il funzionamento delle Case della Salute.
Si completava così un percorso culturale teorico ed innovativo per riordinare l’assistenza di base territoriale.
Ciò nonostante si iniziavano a percepire da subito alcuni movimenti contro-riformisti al fine di recuperare un controllo burocratico-prescrittivo forse sfuggito inavvertitamente con i documenti emanati dal 2010 al 2015. Ad esempio tra il 2013 al 2015 compaiono le prime bozze finalizzate alla “prefabbricazione” dall’alto di associazioni di volontariato ingegnerizzate a tavolino mettendo così a rischio idee e intuizioni innovative caratteristiche di un volontariato libero ed autonomo e alla fine hanno consegnato alla mano paternalistica e rassicurante del potere amministrativo “controllante” almeno la parte sovra-ordinata del così detto terzo settore.
Nel 2016 con la delibera n. 388 del 2016 viene poi, improvvisamente, (a conferma delle avvisaglie percepite nel periodo 2013-2015), varata la contro-riforma di tutta la pregressa sistematizzazione innovativa sulle CdS. Il revisionismo burocratico riprende il sopravvento ed inserisce, nei documenti relativi alle CdS, normative rigide e protocolli “a silos” difficilmente conciliabili con la cultura dell’integrazione o della co-produzione multiprofessionale, multidisciplinare e multisettoriale sviluppatasi intorno al fervore creatosi con la delibera del 2010 sulle CdS.
Nel 2021 viene approvato il piano detto PNRR per rilanciare l’economia italiana dopo la pandemia. Al nostro paese vengono assegnati 191,5 miliardi: il 36,5% a fondo perduto e il 63,5% (121 miliardi) in prestito. Con la così detta Missione 6 del PNRR vengono elencati gli obiettivi di tipo sanitario relativi al piano e al finanziamento specifico.
Il DM 77 ( decreto 23 maggio 2022 del Ministero della salute) è il documento che contiene il regolamento attuativo per lo sviluppo nazionale della stessa Missione 6.
Tra le numerose indicazioni alcune disposizioni meritano forse qualche argomentazione.
L’assistenza domiciliare dovrà raggiungere percentuali richieste dalle nuove normative ma questo richiederà il superamento di qualche contraddizione operativa in quanto pare che i Distretti (benedetti come “perni” del riordino delle cure primarie dal DM77) possano paradossalmente essere la causa principale della riduzione del numero delle Assistenze Domiciliari.
Gli Infermieri di comunità in molte realtà sono una attività preziosa e perfettamente operativa da anni (NCP Nuclei di Cure Primarie infermieristiche di quartiere).
Le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziali) utilissimi sostegni per la medicina di base, soprattutto nelle pandemie, inserite nei territori nel periodo covid per DPCM, sono state poi abolite, successivamente riattivate, ri-annullate di nuovo, infine, come si dice quando si vogliono tagliare i servizi, razionalizzate…
Le Cure Palliative si trascinano da anni snervanti incoerenze. Pur essendo un tipo di assistenza fondamentale e “ontologica” per la medicina generale da qualche parte si asseconda l’insano dubbio che il mmg possa “non” rappresentare il primo palliativista di riferimento per il paziente che ha esercitato la scelta fiduciaria per quello specifico medico (forse pensando proprio ad una eventuale propria terminalità). Se invece la “palliazione” deve essere istituzionalizzata come attività specialistica a se stante, con strutture riservate, con direttori, responsabili e coordinatori… bisognerebbe almeno immediatamente, seduta stante, abolire le vergognose (forse eccessivamente confidenziali) liste d’attesa (sic!).
SCHEDA RIASSUNTIVA DELLE CARATTERISTICHE DISTINTIVE TRA CdS e CdC
Il confronto “a colonne” tra le caratteristiche delle CdS con quelle delle CdC non danno l’impressione di palesare “differenze epocali” e pare che il culmine del divario stia solo nelle denominazioni (da CdS a CdC) e di conseguenza nella cartellonistica. Se poi si desidera soppesare il valore relativo all’efficacia, all’efficienza, all’organizzazione, al gradimento dei cittadini verso i servizi offerti, alla comprensione della struttura da parte della popolazione l’ago della bilancia potrebbe pendere pesantemente a favore della “Casa della Salute Grande” quando questa può beneficiare di una completa autonomia (abolizione delle aziende sanitarie e delle mega aziende e ripristino dei consorzi territoriali) nel processo decisionale e nel governo clinico.
SCHEDA RIASSUNTIVA DEL PROCESSO DECISIONALE NELL’AMBITO DELLE CURE PRIMARIE (es.: EDIFICAZIONE O RISTRUTTURAZIONE DI UNA CASA DELLA COMUNITA’ E DEL SISTEMA ASSISTENZIALE TERRITORIALE)
(Welfare di Comunità, QdS, 7 maggio 2021)
SCHEDA RIASSUNTIVA DELLE CARATTERISTICHE DISTINTIVE DEL GOVERNO CLINICO (GC)
GC AUTONOMO DELLE CURE PRIMARIE VS GC AZIENDALE ISTITUZIONALE
Come già menzionato una “comunità” si considera tale quando è composta da un gruppo di individui che vivono in un territorio limitato con caratteri comuni e reciproca dipendenza (appartenenza, solidarietà, legami sociali paritari non rigidamente gerarchizzati, senso di libertà con potestà di partecipazione alla vita collettiva). La comunità non è sovrapponibile ad una popolazione o ad una società perché in questi casi le relazioni sono più complesse, le dimensioni più vaste, meno controllabili e quindi restano più sconosciute.
Il termine “comunità” associato a gruppi, associazioni, portatori di interessi è esploso dopo la pubblicazione del PNRR. E’ diventata una parola molto diffusa, inflazionata, utopistica. Infatti la contemporaneità è caratterizzata da un individualismo economicistico e da relazioni “contrattuali” che non lasciano tanto spazio alle “comunità” tradizionali, contenute nelle loro dimensioni e accumunate da saperi, tradizioni e scale valoriali consolidate nel tempo.
Purtroppo occorre constatare che, al momento, le comunità sono smarrite, frantumate, frullate dalla globalizzazione e dai recenti avvenimenti sanitari ed economici. In questo senso il termine “Casa della Comunità” appare quindi ancor più fuori contesto, instabile e senza reali punti o radici di riferimento.
Il tema delle cure palliative, già ricordato, evidenzia l’importanza che può avere un punto di riferimento (non per forza tecnologicamente avanzato) alla fine di una esistenza umana di un assistito che sceglie fiduciariamente un dato mmg proprio per esigenze o bisogni molto riservati. La struttura sociale e le istituzioni (che dovrebbero essere modelli guida) non sono più in grado di conservare le loro funzioni tradizionali perché si sciolgono prima ancora di avere stabilizzato qualche cosa ( es.: la decennale questione delle liste d’attesa, il fallimento del progetto sulle Case della Salute, la mancanza di autocritica e di un radicale cambiamento delle élite Dirigenziali perpetue, l’impossibilità di addivenire ad una riforma radicale del SSN, l’abolizione delle Aziende, Distretti e Assessorati, l’assenza della politica e la vistosa preponderanza della finanza…).
Il risultato è la paralisi di ogni possibile azione collettiva e l’esclusione degli individui, che credono di appartenere ad una comunità, dalla partecipazione attiva alla stessa vita comunitaria.
Chi ha scritto il DM77? Perché è stato redatto in modo che potesse dare la sensazione di essere stato confezionato in favore di piccoli gruppi di élite staminali (totipotenti e onnipresenti)?
Lo sfrenato individualismo elitario è riuscito a danneggiare anche il senso stesso del bene comune.
Le comunità, quelle tradizionali a cui spesso si fa riferimento nella narrazione quotidiana, non ci sono più ed è venuta meno la loro funzione di “organo di mediazione”.
La realtà appare più popolata da gruppi individualistici ed elitari e le inevitabili eccezioni non sono in grado di cambiare la situazione attuale.
Il termine “comunità” ha perso il suo senso anche perché le istituzioni stesse testimoniano un valore unico, quello della “competizione” che diventa poi modello di conflittualità tra individui e istituzioni.
Le divergenze portano, a loro volta, alla difesa dell’interesse egoistico, all’incertezza, all’ansia, al senso di fallimento.
Emblematico da questo punto di vista è la corsa agitata per accaparrarsi un posto sul carro del “progetto Case della Comunita’” dove i gruppi di lavoro o organizzazioni sgomitano per restare a bordo subito pronti però a scendere non appena si comprenderà che non vi saranno vantaggi in solido.
La comunità non è più una finalità filogenetica ma un “mezzo” per raggiungere un fine più prosaico e per questo obiettivo non si esita a rinunciare all’originalità innovativa, spesso non allineata alle disposizioni ufficiali, per adattarsi remissivamente al mito burocratico (es.: DM 77), anche se incomprensibile, perché alla fine resta la via più facile che comunque non riuscirà mai ad attenuare contraddizioni, disuguaglianze e discriminazioni.
Le comunità potranno essere ricomposte?
In parte, se saremo in grado di essere saggi. Se saremo prudenti e in grado di generare idee innovative valide.
Per trovare delle soluzioni occorre ricominciare radicalmente da capo (riforma) con leader territoriali credibili e accreditati dal consenso (libera scelta). Nel film “Invictus” il Presidente Mandela, leader emblematico, si trova, suo malgrado, a riprendere i suoi sostenitori più faziosi dicendo “Voi mi avete scelto ed ora lasciativi guidare da me”.
I servizi (che potrebbero essere anche sovrapponibili ai diritti) vanno riportati nei quartieri e nei territori, le risorse devono ritornare paritarie, occorre restituire il maltolto, abbandonare la logica dell’economicismo statistico/numerico, quindi abolire la strutturazione attuale, i relativi documenti normativi e gli oracoli del pensiero unico. E’ determinante, promuovere la salute che può concretamente diventare ricchezza per una comunità e dare vita ad ulteriori sperimentazioni valorizzanti e a convinti stili di vita provvidenziali perché effettivamente preventivi.
Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria).
Sanità pubblica addio? Agnetti: “Come possiamo evitare di arrivare al punto di non ritorno?”
La sanità privata è ormai un sistema molto potente in tutte le regioni ed in tutte le provincie. E’ molto complesso pensare ad una sua revisione radicale. Sarebbe come affrontare le problematiche sorte con il finanziamento pubblico della Fiat ad iniziare dagli anni ’70 aggravato da fatto che, oggi, gli occupati nella così detta sanità privata sono molto superiori al numero dei dipendenti della Fiat e la diffusione logistica del privato è capillare in tutto il paese.
Molti colleghi erano lì, nei primi anni 80, quando la riforma sanitaria ( 833 del 23 dicembre 1978) iniziava il suo iter applicativo. Da allora si è passati dall’iniziale entusiasmo al disincanto rassegnato tanto che pensare a qualche cambiamento può apparire addirittura velleitario. Gli storici sanitari “boomer” sono passati dall’essere clinici attivi ed operativi a utenti se non pazienti. Mantengono tuttavia un patrimonio di conoscenze che li rende esperti perché “conoscitori dei fatti accaduti” sia nell’ambito dei professionisti delle cure che nell’area variegata degli assistiti.
Durante questo tribolato periodo numerosi medici e operatori sono stati quasi presi per mano dalle numerose pubblicazioni del Prof. Ivan Cavicchi che hanno così favorito formazione e approfondimenti in merito ai temi più critici della politica sanitaria italiana.
L’ultima fatica del Prof. Ivan Cavicchi ha nel titolo (Sanità Pubblica Addio) un termine definitivo, “addio” appunto.
Il sottotitolo riporta però una frase che tenta di individuare “la causa prima” che ha provocato la sconfortante rottura: il cinismo delle incapacità. A leggere il testo questa incapacità pare poter essere associabile ad una profonda ignoranza, soprattutto da parte dei decisori, sui fondamentali di una disciplina molto complessa come la medicina.
Nella controcopertina riemerge comunque lo spirito indomito del Prof. Cavicchi quando sostiene: “non è vero che sia impossibile o inconcepibile una sanità che funzioni, adeguata ai bisogni delle persone, giusta”.
L’analisi inesorabile e a tutto campo presentata nel testo del Prof. Cavicchi è già più che bastevole. Sono state lette su QdS ulteriori riflessioni e studi generali colti e minuziosi. E’ superfluo quindi esporre altre considerazioni complessive affidando quindi questo compito ad una sola immagine.
In considerazione della esperienza accumulata nel tempo si farà soprattutto riferimento al capitolo 14 del libro del Prof. Cavicchi: Medicina Generale.
In effetti il Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di cui il sottoscritto fa parte, si è dedicato, in questi anni, allo studio “operativo” e “di base” di quanto la Politica Sanitaria ha prodotto in merito all’organizzazione sanitaria territoriale (ACN, AIR, DM77, Metaprogetto, PNRR, delibere, intese, documentazioni, iniziative o coordinamenti ecc.).
L’attività della Medicina Generale, più correttamente, l’operatività dell’insieme degli attori che agiscono sulla scena delle Cure Primarie si svolge per la gran parte in modalità ”periferica” e di conseguenza sviluppa una cultura specifica di “confine” in quanto, a questo livello, avviene il contatto diretto con le persone, le loro peculiarità ed i loro bisogni espressi e non espressi. In questo ambito le richieste bio-psico-sociali sono molto forti.
Tuttavia è proprio a livello del territorio che si potrebbero intravedere interessanti spinte riformiste foriere di una nuova cultura sanitaria assistenziale, originale e specifica, spesso spontanea, che potrebbe affondare le proprie radici nelle integrazioni (co-operazioni) tra operatori professionali e cittadini (https://youtu.be/KtDb05WbtFI).
Il nuovo clima intellettuale riformista che originerebbe nel perimetro delle cure primarie sarebbe in grado di misurarsi con sistemi complessi rappresentati dal contesto (bisogni delle persone ed esigenze degli operatori). Si formerebbero così modelli di leadership riconosciuti che si pongono come punto di riferimento e di servizio per l’intera comunità di appartenenza.
La leadership di comunità si distinguerebbe non solo per la mancanza di strutture gerarchiche, per la flessibilità verso forme collettive o collegiali del modello, per la trasparenza e la capacità di mettersi in gioco; per la gestione serena della responsabilità condivisa; per il ruolo di testimonianza; per la valorizzazione della meritorietà ( criterio del merito) al posto della tanto decantata meritocrazia ( governo della meritocrazia), per la totale gratuità.
A tutt’oggi la “libera scelta” che caratterizza in modo unico la medicina generale e il medico di base (finché questo istituto verrà mantenuto) rappresenta una legittimazione quasi politica (non partitica) che facilità la co-operazione e la co-responsabilità tra sanitari e cittadini. Il prof. Cavicchi, nel suo scritto, liquida definitivamente il tema della dipendenza del mmg (“stupidaggine”).
Questa cultura riformista che da tempo si sta sviluppando silenziosamente a livello territoriale, resta sempre una constatazione inaspettata da parte delle Alte Dirigenze regionali e locali in quanto spesso la loro efficacia non coincide con i protocolli o con le normative istituzionali e le esigenze amministrative/economiche di controllo. Si tende quindi a scotomizzarla o riassorbirla in complicati sistemi burocratici che ne soffocano l’originalità innovativa.
Al chiacchiericcio che recentemente è nato intorno al PNRR (missione 6), alle Case della Comunità e agli Ospedali di Comunità partecipano troppi soggetti autoreferenziali (“che di base non hanno niente”). Non si considerano le esperienze che non siano perfettamente allineate ma si sommano stucchevoli esposizioni che poco hanno a che fare con gli operatori che svolgono la loro attività quotidianamente in prima linea. Nessuna iniziativa e nessun coordinamento è riuscito ancora a eguagliare quella “vera riforma” delle cure primarie rappresentata dalla storica delibera della Regione Emilia-Romagna sulle Case della Salute (GPG/2010/228) con la quale si normava la realizzazione di queste strutture.
La reale azione riformatrice riguardava solo la così detta casa della salute “Grande” in quanto ipotizzava la creazione in ogni quartiere o in ogni territorio di un complesso logistico-architettonico che potesse offrire un “contenuto” in grado di mettere a disposizione di una comunità l’intera gamma dei servizi territoriali sanitari, sociali, assistenziali, riabilitativi, di strutture intermedie, di assistenza diurna, di integrazione tra operatori e terzo settore.
Un reale servizio per i cittadini che avrebbe garantito anche la prossimità, la domiciliarità e la continuità delle cure. Le normative, i coordinamenti e le iniziative che si stanno muovendo intorno alla questione del PNRR sanitario restano tutt’ora una “mistificazione” che “non hanno niente a che fare con la comunità” (termine ormai inflazionato) e sono funzionali solo ad un ruolo prefettizio dei distretti che grazie alla narrazione collegata al PNRR tentano di recuperare una competenza da tempo evaporata.
Il fallimento dell’esperienza Case della Salute non è da attribuire a questioni economiche ma piuttosto al mancato coraggio di portare fino in fondo quel progetto che avrebbe potuto dare forma a quel clima intellettuale e culturale territoriale innovativo ed autonomo già ricordato ma poco controllabile a livello istituzionale.
Da questo punto di vista può essere molto istruttivo analizzare la Delibera GPG/2016/2253 della Regione Emilia-Romagna dove, probabilmente, può essere evidenziato un esempio plastico di contro-riforma estremamente contorto che nella pratica ha bloccato ogni possibile evoluzione innovativa delle Case della Salute “Grandi”.
L’esito negativo di questa stagione ha lasciato dietro sé profonde cicatrici individuabili in una aumentata sfiducia degli operatori nei confronti delle istituzioni e in un incremento delle differenziazioni (eufemismo) professionali ed assistenziali. Anche i recenti documenti che vanno per la maggiore dimostrano una intricata “assenza di pensiero”, la mancata semplificazione che offusca la trasparenza, un serpeggiante contro-riformismo, una evidente inapplicabilità delle norme operative (“il mmg segato in due per fare due mezzi medici”), soprattutto l’incapacità di comparazione con altri concetti e altre esperienze palesata dalla numerosa produzione “potestativa” di normative cogenti. (https://www.brunoagnetti.it/2022/05/17/cosa-fa-oggi-e-cosa-dovrebbe-fare-oggi-e-domani-il-medico-di-medicina-generale/ ).
Già nel lontano 27 giugno 2012 la stessa SISAC (Struttura Interregionale Sanitari Convenzionati ) evidenziava alcune criticità evidenziate nella stesura dei documenti ufficiali dove si confondono periodi temporali; difficoltà nella comprensione delle disposizioni; farraginosità, contraddittorietà, ambiguità… ma da allora a tutt’oggi non sembra che siano cambiate le cose.
Anche il fenomeno delle liste d’attesa e la regolamentazione amministrativa delle priorità (UBDP) desta qualche criticità e probabilmente deriva da una mancanza di fiducia istituzionale nei confronti dei professionisti. Un collega medico di base ha raccontato il seguente episodio: nel mese di gennaio 2023 ha diagnosticato ad un assistito occasionalmente una severa Insufficienza renale ( in relazione ai dati di laboratorio). Ha immediatamente provveduto a impostare una terapia adeguata associata a dieta e ad attività fisica.
Contestualmente ha provveduto personalmente, in considerazione del caso clinico, a prenotare una visita specialistica nefrologica urgente. L’appuntamento nel pubblico necessario anche per ufficializzare l’E.T. e poter ricevere i prodotti alimentari aproteici è stato fissato per metà maggio del 2023. Le liste d’attesa rappresentano la prima barriera all’accesso alle cure (quasi 4 milioni di cittadini hanno rinunciato alle cure nel 2022 e ancora nel 2023 pare che circa 2 milioni di persone siano senza medico di base).
Modelli e idee alternative per una vera riforma radicale delle Cure Primarie ve ne sono molte e lo stesso Prof. Cavicchi ne sintetizza alcune tra queste ( terza via):
- coerenza con i “valori” di riferimento ( è possibile elencarne alcuni: non maleficità, beneficienza, giustizia, autonomia, equità, qualità, trasparenza, sostenibilità, trasmissibilità, complessità, co-operazione, co-responsabilità collegiale…)
- “abolizione delle aziende” (invece che accorparle in mega-aziende) e ritornando ai consorzi per governare meglio la complessità dei malati spendendo molto meno.
- “modificazione del sistema retributivo” degli operatori puntando su gli esisti. Il sistema del governo clinico dovrebbe essere completamente scollegato da sistemi amministrativi/burocratici/economicistici; gli obiettivi verrebbero scelti, in accordo con le esigenze del SSN, anno per anno dagli stessi professionisti/operatori (clinici, assistenziali, organizzativi, relazionali, co-operativi…) incrementando così il senso di appartenenza e la condivisione delle responsabilità all’interno di una aggregazione professionale territoriale
- “produzione di salute” perché questo crea quella ricchezza in grado di bilanciare i costi della sanità.
- trasformazione del mmg in medico “autore” in grado di attuare una nuova prassi ( “opera”).
- rendere il mmg “azionista della sanità pubblica” affidandogli responsabilità dirette sul processo decisionale e sulla gestione del SSN
Come possiamo evitare di arrivare al punto di non ritorno?
La sanità privata è ormai un sistema molto potente in tutte le regioni ed in tutte le provincie. E’ molto complesso pensare ad una sua revisione radicale. Sarebbe come affrontare le problematiche sorte con il finanziamento pubblico della Fiat ad iniziare dagli anni ’70 aggravato da fatto che, oggi, gli occupati nella così detta sanità privata sono molto superiori al numero dei dipendenti della Fiat e la diffusione logistica del privato è capillare in tutto il paese. Vi sono precise responsabilità da attribuire ai decisori e alle forme di consociativismo. Alcune città dell’Emilia-Romagna, regione dove la narrazione ufficiale o i luoghi comuni porterebbero ad immaginare una maggiore diffusione del servizio sanitario pubblico, presentano una densità di strutture private sovrapponibile a quella della Lombardia.
Ciò che invece ha effettivamente condotto al capolinea di un binario morto sono stati i limiti culturali che si sono accumulati nel tempo e hanno interiorizzato un pensiero “privatocratico” generatosi proprio all’interno del Servizio Sanitario Pubblico. Da questa ”regressività” è verosimile che nessuna regione e nessuna azienda può chiamarsi fuori. E’ quindi impossibile uscire da questo flusso di torrente in piena per ricostruire una “titolarità del pubblico” con chi, in questi anni, ha coltivato un pensiero unico e debole così monotono e ripetitivo ( ossessivo?) da non permettere nemmeno un minimo di autocritica. Persistono infatti deliberazioni e narrazioni decontestualizzate ed antistoriche anche sul PNRR. Secondo la Corte dei Conti c’è un forte ritardo nella sua attuazione.
Le strutture in conto capitale sono progettate e deliberate senza mai coinvolgere nel processo decisionale (es.: sulla struttura/disegno architettonico) ex ante i professionisti che dovrebbero renderle efficienti ed anche efficaci. L’obiettivo delle aziende è molto orientata alla formazione “amministrata” degli operatori tanto che si prospetta una obbligatorietà fallimentare ( “il mmg segato in due per avere a disposizione due mezzi medici”!) per svolgere una parte del monte ore professionale tra le costruende Case della Comunità e gli ambulatori singoli o di proprietà.
Sembra che non esista la minima consapevolezza della realtà operativa quotidiana che impegna gli operatori territoriali ( mmg, altri sanitari, servizi…). Il rovinoso impianto orario ipotizzato dal DM 77 diventa impossibile da realizzare pena un ulteriore declassamento valoriale dell’assistenza di base. Il diritto alla salute come “meta-valore” in questo modo non viene rispettato.
Quale giudizio diamo delle nostre esperienze riformatrici e contro-riformatrici? A parte la già citata Riforma del 1978/ 833 le azioni riformatrici sembrano appartenere ad esperienze isolate e nascoste a causa di una qual diffidenza tra convenzionati innovativi e istituzioni. Chi riesce realizzare qualche aspetto creativo e riformatore, anche se non strutturato, desidera poter continuare ad operare silenziosamente per non rischiare di diventare oggetto di una invadenza amministrativa sapendo bene che l’esperienza pratica non potrà mai essere accolta così come viene applicata. Invece l’attività contro-riformatrice è molto attiva. E’ talmente pervasiva che nasce il sospetto che non vi sia nei decisori una piena consapevolezza di come le situazioni vengano ingarbugliate così da causare la lenta erosione della sanità pubblica. Anche la pandemia (già dimenticata) e la questione del PNRR sembrano aver prodotto ora un fastidioso ed estraneo rumore di fondo che distrae gli operatori dal compito di affrontare ogni giorno la “complessita’ del nostro tempo”.
Che giudizio diamo del nostro macroscopico anti riformismo? Inevitabilmente questa tendenza è molto forte, apparentemente inarrestabile. La globalizzazione (anche se attualmente potrebbe subire modificazioni profonde) e la finanza vincono sulla intelligibilità e sulle persone. La rassegnazione, l’individualismo, il singolarismo e il conseguente relativismo fa accettare, quasi passivamente, ogni forma di anti riformismo. Inoltre le logiche aziendali continuano ad essere concentrate su aspetti economicistici che vengono assunti come parametri meritocratici per distinguere i buoni dai cattivi clinici ( sic!).
Per quale ragione le cose in sanità restano saldamente invarianti? Le sovrastrutture di potere gerarchico non possono essere modificate. È noto a tutti che un bilancio regionale per un 70-80% interessa la sanità. È un potere enorme… qualche volta capita che incroci anche il bene comune. Il mercato, la governace, l’economicismo sono diventati sinonimo di equità, giustizia, universalità, libertà ed hanno uniformato sotto questo ombrello qualsiasi modello culturale. Il mercato rappresenta un potente impatto ma crea anche amnesie immediate. Le norme e le circolari devono avvicendarsi velocissimamente così sono in grado di catturano l’attenzione.
Non importa se sono riforme o contro riforme. Come la circolare della Sisac pare suggerire più i testi sono contradditori più creano infinite “chiacchiere”, finte attenzioni, spirali senza fine e giochi retorici. Ogni interpretazione è possibile. Quella che vince tuttavia è sempre la più forte. Che non significa che sia la più giusta.
Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi di Programmazione Sanitaria)
Leggi gli altri interventi al Forum: Cavicchi, L.Fassari, Palumbo, Turi, Quartini, Pizza, Morsiani, Trimarchi, Garattini e Nobili, Anelli, Giustini, Cavalli, Lomuti, Boccaforno, Tosini, Angelozzi.
05 aprile 2023
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Cure primarie, c’è una alternativa?
Gentile Direttore,
l’ambito del così detto “territorio” (che considera tutti gli attori che insistono sulle cure primarie compreso il volontariato/terzo settore) da tempo vive nella certezza dell’incertezza.
Pare molto arduo poter percorre una alternativa al pensiero dominante, come fosse un pensiero unico, diffuso a livello manageriale.
Non sono comunque i documenti ufficiali ricordati più volte (ACN, DM77, Metaprogetto…) che sembrano in grado di diradare l’orizzonte. I decisori, ignari del divario istituzioni/società, sono un po’ sempre quelli e ritornano tenacemente pur avendo rivestito ruoli dirigenziali per molti decenni del secolo scorso. Dai risultati ottenuti a livello del sistema sanitario sembra non siano approdati in nessun porto sicuro a causa delle conosciute contraddizioni culturali e gestionali attribuibili ad un processo cognitivo novecentesco. Se la parte sanitaria regionale rappresenta il 70-80% del bilancio regionale sono facilmente intuibili le possibili ripercussioni prodotte dal governare un fiume di denaro pubblico e del potere che questo comporta nelle varie articolazioni regionali-locali.
È di tutta evidenza che non si possano “ignorare gli errori fatti in passato sulla sanità” così come non si può dimenticare il notevole contributo alternativo prodotto in questi anni con articoli, conferenze, analisi, colte pubblicazioni e offerto ai cultori delle questioni sanitarie dal Prof. Ivan Cavicchi.
È quindi pleonastico richiamare temi e tesi di riforma radicale già avanzate più volte, esaustivamente. Chi ha subito le conseguenze della modifica del titolo V, della regionalizzazione del SSN (percepite come già molto differenziata) considera non sia più possibile peggiorare oltre. (Lettera aperta alla sanità; Autonomia differenziata).
La stagione delle Case della Salute potrebbe addirittura e paradossalmente apparire come un momento generatore di differenziazioni (alcuni colleghi le definiscono discriminazioni) assistenziali e professionali. Cosa potrebbe capitare con le Case di Comunità o quelle strutture intermedie definite Ospedali di Comunità o con l’ipotizzata centralità dispositiva distrettuale?
Cos’è una comunità, come si crea e come si mantiene viva? Alcuni, pur addetti ai lavori, sostengono ed argomentano che le Case della Comunità siano cosa diversa dalle Case della Salute. Forse sarebbe utile leggere la delibera sulle Case della Salute della Regione Emilia Romagna (GPG/2010/228). Una Casa della Salute “grande” potrebbe apparire, almeno dal testo della delibera, molto più attrezzata per una assistenza territoriale integrata di quanto descritto dai vari documenti sulle Case della Comunità. Non solo per la cronicità e per la medicina di iniziativa ma anche per quella di attesa e per alcune tipologie di acuzie (bisogni non differibili). Pare ci sia molta confusione sotto il cielo ma la situazione non è eccellente perché se coloro che sono esperti e che vorrebbero dedicarsi alla formazione degli operatori sono così disorientati c’è da immaginare cosa possa capitare.
L’alternativa, se possibile, non può che passare dal concetto dell’impareggiabilità dei professionisti autori capaci di generare il processo decisionale nella sua completezza e di essere punti di riferimento per le proprie comunità. Da una guida nazionale del Ssn. Da territori contenuti dal punto di vista geografico e di popolazione, concetto assistenziale che si contrappone alle varie tendenze di ingegnerizzazione sanitaria orientate alle fusioni aziendali o alle mega aziende. Da un welfare che sia effettivamente di comunità (non un welfare aziendale per altro pubblicizzato anche dalle aziende sanitarie… sic!).
Sarebbe ora di lasciare lavorare gli operatori senza complicare la loro attività con regolamentazioni amministrative incomprensibili per i cittadini e inaccettabili per i professionisti.
Per le aziende e gli assessorati l’alternativa potrebbe diventare un nuovo ruolo elevato di garanzia inerente i valori fondamentali di universalità, equità e accessibilità e con una riduzione significativa di implicazioni gestionali-amministrative.
Di fatto la situazione richiede la consapevolezza della profonda trasformazione sociale in atto. Se gli operatori non saranno liberi di rimanere autonomamente al passo con le rivoluzioni culturali rischiano seriamente una regressione professionale.
Tralasciando tesi già trattati da provetti commentatori, è possibile solo accennare (parziale elenco) ad alcuni temi che in qualche modo potrebbero rientrare in una riflessione generale in senso “alternativo” per le cure primarie.
- Purtroppo sembra che secondo il comunicato della commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali (GU n. 187 del 10 agosto 2002) sia praticamente impossibile poter indire uno sciopero a livello territoriale (Mmg) come strumento per fare pressioni innovative sui decisori. Nello stesso tempo l’esperienza insegna come i documenti emanati unilateralmente dalle istituzioni (es.: atto di indirizzo della Conferenza Stato-Regioni) non possano poi essere sostanzialmente modificati dai tavoli di confronto indetti ex post.
- Nelle cure primarie (in particolare nella Medicina Generale detta di base) si assiste ad un parziale ma netto rivolgimento della tradizione in quanto la maggior parte dei professionisti che entrano in attività in questi anni sono donne: questione completamente dimenticata dalla documentazione istituzionale e che potrebbe preconizzare la necessità di una profonda rilettura di bisogni ed esigenze organizzative.
- Le associazioni di ammalati o dei loro parenti, uniti insieme da una patologia, a volte hanno dimostrato di riuscire a modificare situazioni specifiche, influire sull’organizzazione sanitaria di alcuni reparti ospedalieri e addirittura finanziare ricerche, strumentazioni o immobili. Il coinvolgimento dei cittadini come massa critica in grado agire come stimolo riformatore resta in generale intrepida ma episodica. Ancora più complessa la situazione a livello territoriale dove le associazioni di volontariato o del terzo settore a sostegno e supporto delle cure primarie, come bene comune, sono rare e non ottengono attenzione da parte delle istituzioni.
- Dopo l’annuncio della Commissione Europea e la definitiva approvazione del PNRR pare siano nate numerose aggregazioni, più o meno spontanee, orientate ad una appropriazione di competenze sul PNRR sanitario e sulle documentazioni istituzionali ed amministrative finalizzate ad ottenere accordi con le aziende sanitare per agire come formatori degli attori che opereranno nelle previste Case della Comunità. Secondo le osservazioni derivate dal principio di indeterminazione potrebbe essere molto utile considerare più punti di vista ed in particolare occorrerebbe prendere atto in modo cogente delle opinioni di chi opera quotidianamente in prima linea.
Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)
09 febbraio 2023
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Il Ssn è sempre più debole
Gentile Direttore,
pare che la sanità italiana abbia qualche problema a livello nazionale, regionale e locale. L’ipotesi per una riforma risolutiva cantata a suo tempo da Giorgio Gaber è draconiana e tende a eliminare ogni via di dialogo a causa dell’incapacità, da parte del potere decisionale, di formulare la minima autocritica.
Non si può però negare che da una parte il consociativismo e dall’altra una egoica interpretazione del termine “governance” abbia praticamente annullato ogni possibilità di confronto riformatore. Tra le numerose problematiche che si possono incontrare nella sanità un “dominio” particolare è rappresentato dalla medicina come sistema complesso.
C’è una complessità ontologica.
Il medico di medicina generale nel suo ruolo assistenziale, soprattutto quando come “clinico” è al letto del malato, deve poter sviluppare un processo cognitivo tale da “permettersi” un pensiero pacato e riflessivo che tenga conto della complessità della persona e della famiglia con cui si relaziona. L’eccessiva tecnologizzazione o specializzazione o burocratizzazione o maniacale ossessione per la medicina amministrata o raccolta ritualistica/tribale-idolatrica di dati da digitalizzare rischia di minare la capacità di affrontare i problemi del paziente in modo unitario e complesso.
La relazione tra medico impareggiabile e paziente che ha la possibilità di esercitare la libera scelta, risulta incommensurabile e non negoziabile: è uno dei diritti più importanti che le comunità dovrebbero difendere, se necessario, con concrete azioni sociali.
Vi sono esempi emblematici nei quali la burocrazia delle alte dirigenze si dimostra inadeguata. In questi casi l’approccio olistico e sistemico (la scienza della complessità) supera di molto in efficacia l’approccio amministrativo burocratico gerarchico considerato l’unica via riformatrice (in realtà ultima smisurata controriforma) dalle narrazioni contenute nell’ ACN, nel DM77, nel Metaprogetto…
C’è poi una complessità sociale.
L’intera sanità non andrebbe potenziata o riorganizzata o riordinata intorno ad evanescenti distretti o aziende o mega aziende (“di tendenza”) presentandole, ancora una volta, come solide piramidi gerarchiche quando invece traballano paurosamente in balia di mandati partitici/finanziari.
Nell’intervento su QdS del 5 dicembre 2022, forse come ultima spiaggia, si appoggiava convintamente la creazione di un “Comitato di salute pubblica” con l’obiettivo di formulare le basi epistemologiche e culturali di una riforma sostanziale della sanità pubblica. I criteri che dovrebbero possedere i pochi componenti la commissione risultano talmente distintivi che i nomi e cognomi, anche se formalmente non riportati, sono perfettamente individuabili.
Dopo l’iniziale fervore culturale, professionale e civile seguito all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (L. 23/12/1978 n.833) sono subito iniziate le bordate burocratiche amministrative che anno dopo anno, decreto dopo decreto, normativa dopo normativa hanno creato un “corpus iuris” blindato, autoreferenziale e autoprotettivo ( per le istituzioni sanitarie) abbandonando così, via via, l’anima strutturale e la base culturale contenuta negli ideali e nelle mission della legge 833.
Il così detto “secolo breve” non è quindi effettivamente mai terminato in sanità in quanto la struttura cognitiva delle alte dirigenze regionali e locali sono rimaste tipicamente novecentesche.
Le scosse telluriche procurate dal Covid non hanno minimamente influito sulla consapevolezza di addivenire ad una riforma epocale. Per il PNRR sono stati elaborati affannosamente, (come se non fossero mai esistiti pianificazioni o programmazioni sul medio/lungo periodo) obiettivi e progetti spesso in conto capitale, totalmente scollegati dal contesto.
Avere assicurato il contributo economico dell’Unione Europea non risolve le principali questioni paradigmatiche della sanità. I documenti ufficiali diffusi recentemente sembrano vantare l’ambizione di aver prodotto fondamentali innovazioni. La loro lettura crea invece notevole imbarazzo. I testi sembrano miscugli di concetti o idee, furtivamente recuperati da agili “copia ed incolla”.
Emerge da tutto ciò un servizio sanitario pubblico culturalmente molto indebolito testimone di dis-valori (relativismo e secolarismo) provenienti dalle modalità operative/gestionali del potere decisionale e forse inconsapevolmente assorbiti dalle nuove generazioni di professionisti. I medici storici (es.: i baby boomer) in procinto di passare in massa alla pensione hanno sperimentato gradualmente il passaggio dalle mute al SSN, dal telefono fisso al cellulare, dalla penna al computer, da una visione della pratica professionale paternalistica a quella bio-psico-sociale per atterrare a volte, in questi ultimi vent’anni, ad una cultura del così detto pensiero unico e debole.
I giovani professionisti di oggi si trovano in una situazione sociale e relazionale completamente nuova dove il malessere o la conflittualità è inter-generazionale perché all’interno della professione convivono i baby boomer ma anche medici digitali nativi e dove visioni, missioni, cultura, genere, obiettivi, Intelligenze Artificiali IA e modalità operative sono cognitivamente completamente diverse.
Mentre si iniziano a vedere i primi cantieri per le “Case della Comunità” sorge spontanea una domande: dove sono finite le tanto decantate co-operazioni ex ante con i professionisti e con il terzo settore? “Dura lex, sed lex”: non vi sono infatti attualmente (salvo sorprese) reali possibilità di modificare nulla.
La disillusione è dilagante. L’ennesima controriforma in atto è riuscita nell’intento di fare apparire molto più trasparenti ed efficienti le organizzazioni professionali autonome-cooperativistiche “profit” a fronte della confusione imperante nel servizio pubblico sempre più impegnato a gestire il potere per il potere.
Inoltre dall’inizio del periodo pandemico dilaga la “moda” delle reiterate danze tra nomine (regionali-aziendali) che si sovrappongono ai commissariamenti e questi ai sub commissariamenti per poi ricominciare da capo. E’ facile così perdere il conto sulle posizioni decisionali di chi fa che cosa…
Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)
10 gennaio 2023
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Se la pietra non si preoccupa della goccia
Gentile Direttore,
da dove nasce quel malessere immenso, simile ad un insieme di sofferenza e sfiducia totale, che arriva a depredare l’identità di tanti professionisti e dei loro assistiti? Probabilmente la causa è l’enorme ed insanabile distanza cognitiva e fiduciaria che si è accumulata tra le istituzioni che governano i processi decisionali sanitari e i professionisti stessi. Qualcosa si è rotto.
E non può essere incollato da ACN tradizionali, Metaprogetti, DM 77, documenti della Conferenza Stato-regioni o delle Conferenze Territoriali Socio-Sanitarie molto spesso solo monoliti burocratici autoreferenziali. Tutto viene costantemente aggravato dal fatto che il dominio è sempre economico o finanziario e sovrasta ogni possibile argomentazione clinica/assistenziale. Molti medici della generazione dei baby boomer (nata tra il 1945 e il 1964) ha vissuto il periodo dell’economicismo aziendale sanitario (il tanto esaltato risparmio farmaceutico definito “appropriatezza prescrittiva”) con tutte le sue contraddizioni e discriminazioni che alla fine non ha prodotto un effettivo miglioramento della situazione sanitaria. Anzi.
Le testimonianze apparse più volte su QdS sono ormai numerosissime, appassionate e coinvolgenti. In questa occasione si preferisce non citare specificatamente i vari colleghi che hanno scritto “pezzi” indimenticabili proprio perché scordare qualcuno sarebbe imperdonabile.
Lo si sapeva da tempo che sarebbe arrivata. D. Harvey nel 1989 aveva enunciato il concetto della “compressione spazio temporale” come causa e strumento di velocissime modificazioni sociali planetarie (Villaggio globale, McLuhan, 1964).
Molti responsabili istituzionali che avrebbero dovuto prevedere, essere aggiornati, prendere posizione hanno però preferito dormire sonni inoperosi nella convinzione che tutto alla fine avrebbe seguito il solito andamento così come hanno indicato i corsi e ricorsi storici.
Fino a poco tempo fa (nel 1991 nasce del Web) le informazioni, le comunicazioni e la tecnologia arrivavano alle persone con un “flusso” paragonabile al getto d’acqua che esce dal rubinetto del lavello di casa.
Dopo quella data le persone e quindi anche i professionisti sanitari, in pochissimo tempo, si sono trovati immersi, quasi senza accorgersene, in un oceano tecnologico o hanno ricevuto, in tempo reale, un numero di comunicazioni o informazioni paragonabile alla quantità d’acqua trasportata, al secondo, dall’intero bacino del Rio delle Amazzoni.
I professionisti del territorio insieme ai loro assistiti hanno vissuto e stanno operando da “migranti digitali” o da “nativi digitali” all’interno di questa “rivoluzione” che presenta ogni giorno nuove sfide relative anche all’organizzazione sanitaria e all’evoluzione delle partiche orientate alla salute, al benessere e alla salvaguardia della salute.
Gli ambiti territoriali contenuti e comunitari possono essere soluzioni intelligenti e virtuose per le problematiche innestate da questa trasformazione non ancora ben compresa dalle istituzioni sanitarie. La vita quotidiana infatti, senza il contributo di una buona politica, di una scienza affidabile ed amicale e della giusta ed equilibrata tecnologia diventa presto “solitaria, povera, sgradevole, brutale e breve” come ricorda T. Hobbes nel Leviatano. Inoltre il covid ha chiaramente rievocato come la natura può essere spietata e inaspettata. In questo caso le esperienze hanno dimostrato come la così detta “infosfera” abbia contribuito a superare i pericoli mostrati della “biosfera”.
Solo l’ingegno umano e la buona volontà applicate a comunità circoscritte, all’inizio e prima ancora che intervenissero i protocolli istituzionali, sono riuscite a migliorare e salvaguardare il tenore di vita di molti pazienti grazie alla cultura professionale derivante da una informazione che ha superato, in tempo reale, qualsiasi sistema formativo vetusto come l’Educazione Continua in Medicina-ECM. Oggi gran parte dell’ingegnosità dei professionisti è coinvolta, spesso grazie ad iniziative autonome, nel realizzare la trasformazione da un mondo analogico a uno sempre più digitale in favore delle comunità.
La tanto ricercata governance affamata di dati (ormai “gazzilioni” di dati di difficile stoccaggio senza che trovino uno sbocco convinto verso il bene comune) è un ulteriore organo stantio pesantemente condizionato da una miriade di contraddizioni e regressioni politiche di potere per il potere (assessorati, aziende sanitarie, distretti, fusioni in uniche mega aziende).
La società prosegue il suo cammino mentre la sanità resta aggrappa ad istituzioni novecentesche procurando una regressione professionale in possibile progressivo isolamento (punto di non ritorno?).
Alcune date possono aiutare a comprendere cronologicamente come si è arrivati a questo punto:
istituzione del SSN 1978; accordo collettivo nazionale per la medicina generale ACN del 2005; Accordo Regionale E-R 2006 in applicazione dell’ACN; Istituzione della Conferenza Stato-Regioni 1983; istituzione delle Conferenze Territoriali Socio Sanitarie 2013; modifica del Titolo V della costituzione 2021; aziendalizzazione 1992-1993-1999; istituzione di un organo tecnico-scientifico a supporto del Ministero della Salute AGENAS 1993.
A questo punto è assolutamente necessario un “Comitato di Salute Pubblica” accreditato dal Ministro della Salute di poteri straordinari al fine di realizzare la “quarta riforma” in tempi contenuti e definiti in quanto la perizia degli esperti individuati, culturalmente perfettamente autonomi ed indipendenti da possibili conflitti di interesse, hanno le abilità e la caratura deontologica per rispettare il mandato e i tempi.
Il Comitato dovrebbe essere composto da poche persone (massimo 5-8) molto qualificate e meritevoli per curriculum e competenze. Il Ministro della Salute è un componente di diritto e nomina in modo strettamente fiduciario gli altri componenti che devono possedere le seguenti caratteristiche: preparazione medica e sanitaria, esperto in sociologia delle organizzazioni sanitarie, in logica e filosofia della scienza; in bioetica e biotecnologie; in informazione e cultura della comunicazione; in economia sociale e nel terzo settore.
Se la pietra non si preoccupa della goccia che cade…è peggio per la pietra.
Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) FISMU, Emilia Romagna
05 dicembre 2022
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Negli ambulatori arriva il facilitatore: un aiuto in più
L’associazione di volontariato «Comunità Solidale Parma» (iscritta al Runts, Registro unitario nazionale del terzo settore) ha da tempo attivato l’iniziativa del «facilitatore» introdotto all’interno dell’ambulatorio San Moderanno di via Trieste 108/A, inserito nel progetto «Non più soli» promosso dalla rete Parmawelfare e organizzato in collaborazione con il Punto di comunità San Leonardo.
Il facilitatore accoglie e aiuta le persone che si recano in ambulatorio ad entrare in contatto, nel più breve tempo possibile, con le segreterie o con l’infermiera e si preoccupa di fare in modo che nessuna persona che entri in ambulatorio si senta ignorato nel momento dell’attesa nell’area apposita determinata dalle note normative contro l’epidemia.
Dal mese di novembre di quest'anno è iniziata una nuova funzione di «formazione» dedicata a volontari che desiderano apprendere le modalità operative pratiche del ruolo di «facilitatore di sala d’aspetto di un ambulatorio» al fine di preparare altre persone volontarie in grado di dare supporto alle prossime erigende Case della comunità o Case della salute esistenti o Medicine di gruppo già operative.
Dal mese di novembre quindi nuove volontarie/i vengono affiancati alle facilitatrici già esperte dell’Ambulatorio San Moderanno, coordinate delle segretarie dell’Ambulatorio e sotto la responsabilità dei medici della medicina di gruppo affinché possano diventare competenti nell’attività di facilitatrici/facilitatori.
Tali figure si occupano di instaurare subito una relazione con la persona che entra in ambulatorio, permettono alle segretarie di dedicarsi con più tranquillità alle attività prettamente amministrative (telefono, computer, mail, wapp, videochiamate, messaggi vocali ecc.) Anche l’infermiera potrà così occuparsi delle attività sanitarie in quanto il volontario facilitatore sarà in grado di comunicare in tempo reale informazioni utili ai pazienti (ad esempio, ricette già redatte oppure richieste di prescrizioni, orario e giorni dedicati alle vaccinazioni antiinfluenzali; momento più adatto per accedere alle prenotazioni Cup o agli esami ematici; varie informative specifiche).
Il bacino di utenza dell’ambulatorio si aggira attualmente intorno ai 12.000 assistiti (il quartiere che nel suo complesso può contare 30.000 abitanti). L’afflusso di pazienti nelle 12 ore di apertura è continuo. L’obiettivo dell’associazione di volontariato Comunità solidale Parma, soprattutto in situazione pandemica tutt’ora presente, è quello di permettere alla medicina di gruppo San Moderanno di organizzare il servizio alla popolazione in modo efficace, accogliente e sereno nella speranza che si possa così accrescere il gradimento degli assistiti. Una delle missioni statutarie dell’organizzazione di volontariato Comunità solidale Parma è quello di considerare la medicina generale territoriale come un bene comune da appoggiare e sostenere a vantaggio di tutto il quartiere San Leonardo e il territorio a nord della ferrovia.
L’obbiettivo dell’azione «Non- piùsoli» è quello di trovare modalità innovative per supportare i cittadini ed in particolare quelli che si trovano in una situazione di fragilità.
Il periodo Covid ha più volte evidenziato come le relazioni tra servizi sanitari oberati di mansioni e gli assistiti possono creare incomprensioni che potrebbero sfociare anche in veri conflitti. In questo senso l’attività del facilitatore o della facilitatrice può svolgere un ruolo molto importante nel promuovere la comprensione reciproca e comportamenti più adattivi e gratificanti in quanto i volontari possono intervenire per risolvere i piccoli problemi che si creano quando le attese si prolungano nel tempo o quando i soggetti hanno l’impressione di non essere visti o considerati. Ogni situazione relazionale può fare emergere debolezze o criticità automatiche e inconsapevoli che possono influire negativamente sugli ambienti lavorativi soprattutto quando si opera in strutture di «aiuto» ma la «facilitazione» si propone proprio di essere una nuova forma di aiuto al fine di superare le varie difficoltà ricordate e di sostenere e promuovere la medicina generale (di base) dei nostri quartieri che rappresenta per tutti noi un bene prezioso.
L’attenzione che la volontaria facilitatrice/facilitatore rivolge all’assistito diventa anche un modello positivo di reciprocazione.
Gazzetta di Parma, sabato 26 novembre 2022
Per la sanità serve una riforma “epocale”
Gentile Direttore,
nonostante alcune incertezze palesate nei primi momenti, il nuovo Ministro della Salute potrebbe o dovrebbe avere un solo obiettivo: passare alla storia per aver avuto il coraggio di riformare radicalmente la sanità (“quarta riforma”) polverizzando le “peggiori cose” inventate dai suoi predecessori.
E’ palese che mai e poi mai si sente la necessità di un “meccanico”, come ci ha ricordato pochi giorni fa Cavicchi, qui su QS, e ora o mai più occorre uno statista che si dedichi al SSN pubblico anima e corpo.
Il privato (autonomo o convenzionato o accreditato) è già ben radicato ed organizzato in ogni regione italiana tanto che, paradossalmente, nessuna può definirsi effettivamente tenace sostenitrice della sanità pubblica.
E’ quindi fortemente auspicabile che il Ministro della Salute possa agire autonomamente dalle contingenze politiche ed economiche nell’elaborare un nuovo modello culturale-organizzativo con un orizzonte almeno decennale. Dopo i prossimi 10 anni il contesto sociale muterà di nuovo in modo rilevante e il modello di “riforma” dovrà quindi contenere e prevedere una importante flessibilità per reinventarsi.
Nello specifico le riflessioni rivolte alle cure primarie, al territorio e all’insieme degli attori di quello che viene oggi indicato come ambito delle PHC (Primary Health Care) devono superare un dualismo H-T (Ospedale-Territorio) che concettualmente non ha senso (se non dal punto di vista normativo-contrattuale) perché l’ospedale è comunque inserito in un territorio e il territorio stesso (che anch’esso contiene professionalità, discipline e settori con differenti accordi e regolamentazioni) ha generalmente un ospedale di riferimento.
La situazione (osservata dal punto di vista degli assistiti, del terzo settore e dei professionisti) è effettivamente spaventosa e l’intolleranza sociale è in procinto di esplodere. Negare la realtà sarebbe un atteggiamento suicida.
La via di uscita obbligata è proprio un rifacimento innovativo e drastico che prima di tutto modifichi sostanzialmente i presupposti filosofici, epistemologici e paradigmatici al fine risanare il campo di lavoro dalle infinità di contraddizioni minime, piccole o enormi che hanno caratterizzata la regressione professionale ed assistenziale in questi anni. Il relativismo, il pensiero unico e debole, una errata interpretazione della globalizzazione hanno poi esasperato le criticità.
Le inevitabili incrostazioni create da una abitudine consolidata di “potere” rischia di creare assolutismi autocratici animosi.
Solo imprenditori, capitani di vere aziende, del calibro di Peter Thiel (PayPal, Plantir, Founders Fund, SpaceX, Airbnb, Spotify… ) sono in grado investire in persone intelligenti che sappiano risolvere problemi difficili, anche in ambito medico, cambiando i ruoli dirigenziali ogni 60 giorni per non dare atto all’effetto dell’abituazione e alle sue conseguenze relazionali negative.
Un “Comitato di Salute Pubblica”, sempre auspicato da Cavicchi, appare vitale. Il numero dei componenti di questo collegio dovrebbe essere significativamente contenuto e non dovrebbe avere nessuna attinenza con chi, in questi 40 anni, ha gestito il processo decisionale o sia stato coinvolto nelle scelte sanitarie (burocrazie ministeriali, agenzie, consulenti accademici, alte dirigenze AUSL, assessorati regionali, conferenza stato regioni nella componente sanitaria…). In caso contrario si assisterà alla riproposizione delle solite finte soluzioni di interesse solo amministrativo che affosseranno definitivamente il SSN pubblico (“forfait”).
Nelle ipotizzate riunioni collegiali paritarie devono trovare voce solo persone che sappiano ricercare e costruire, in un tempo definito, una nuova ed intelligente “compossibilità” tra le problematiche economiche e quelle sanitarie. I componenti il comitato devono essere in grado di dare origine ad una reciprocazione pattizia tra servizi sanitari e cittadini all’interno di concetti maturati da tempo nella comunità scientifica che in questi anni si è occupata di organizzazione territoriale sanitaria: “impareggiabilità” della professione, medico “autore”, autonomia di impresa nel processo decisionale e nel governo clinico, abolizione delle AUSL, partecipazione decisionale effettiva delle comunità di cittadini e delle associazioni dedicate ( mission statutaria).
E’ di tutta evidenza che per ottenere una operatività efficace (ma anche estremamente meno costosa dell’organizzazione attuale) le dimensioni territoriali adeguate dovrebbero aggirarsi intorno a parametri di un quartiere cittadino o ad un area extraurbana/rurale corrispondente).
Molti professionisti delle cure primarie hanno sperimentato, in alcune regioni, dal 2005 a tutt’oggi, la progressiva pervasività della medicina amministrata aggravata da un grossolano abuso di algoritmi (per altro sempre più sofisticati) circolari, normative e protocolli orientati ad una enorme raccolta di dati per altro non ancora compresi ed utilizzati disastrosamente dalle tecnocrazie monocratiche per tornaconti sfortunati. Molto presto, entro 10 anni, l’intelligenza artificiale e gli algoritmi saranno in grado addirittura di produrre, automaticamente, ulteriori algoritmi “dopanti” che si adatteranno in modo parassitario ad ogni singolo paziente e ai professionisti.
Tutto ciò comunque non riuscirà a risolvere la problematica della complessità della persona in quanto l’Intelligenza Artificiale è un determinismo meccanico che ripete sempre e comunque schemi pur avanzati ma senza qualità. Non sa darsi un fine ma manifesta solo una funzionalità: non parla, non dice ma soprattutto non spiega. Funziona solamente. Il computer si può accendere o spegnere. Nelle persone l’interruzione della coscienza si chiama morte.
La qualità sta nella cura e nel prendersi cura in quanto la fragilità/vulnerabilità e la reciproca dipendenza è ontologica, unifica tutte le persone rivelando chiaramente la mancanza di sovranità sull’esistenza da parte dell’uomo e ancor di più da parte delle istituzioni meccanicistiche. La complessa relazione di cura è una necessità ineludibile che ci ha accompagna per tutto il tempo della vita essendo viventi “prorogati” di momento in momento.
Gli sviluppi tecnologici attuali e prossimi venturi funzioneranno finchè sono accesi ma non corrispondono a nessun sviluppo scientifico relativo allo spiegare e al conoscere millantando pretese di oggettività nelle relazioni di causalità. L’evoluzione dei sistemi complessi e la fisica quantistica sanciscono la provvisorietà delle teorie scientifiche e riconoscono il carattere problematico della conoscenza.
Recenti documenti come l’ACN, il Metaprogetto, il DM 77, le comunicazioni della Conferenza stato regioni continuano a perseverare in modo diabolico negli errori di comunicazione e nelle determinazioni calate in modo lineare dall’alto a fronte di una realtà assistenziale sempre più complessa.
Una riforma coerente, contestuale e coraggiosa nella considerazione della complessità della cura e del prendersi cura può invece rappresentare per la sanità pubblica un evento pari alla scoperta di un farmaco contro il cancro o ad uno sbarco sulla luna.
Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) FISMU, Emilia Romagna
22 novembre 2022
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L’isola che non c’è
L’isola che non c’è
21 OTT -
Gentile Direttore,
l’encomiabile contributo del collega Luigi Di Candido, pur non analizzando i temi generali che possono essere alla base di una riforma radicale della sanità soprattutto territoriale pone comunque una consistente pietra angolare alle fondamenta per ristrutturare l’intero SSN.
Nel passato pare che qualche AUSL, nella ridondante stagione dell’aziendalizzazione generata dalla nota modifica del Titolo V, abbia addirittura tentato di iscriversi all’Unione Industriali del territorio di appartenenza ma questa avventura sembra non essere andata a buon fine. In effetti, osservando i numeri e anche la logistica di quelle organizzazioni che oggigiorno, in modo barocco, continuano ad essere definite aziende sanitarie hanno migliaia di dipendenti e sono tra i pochissimi enti che hanno il vantaggio di trovarsi all’interno dell’abitato delle nostre città.
Una datata ricerca sul clima organizzativo ed il benessere aziendale (“I medici bocciano i dirigenti”, il Sole 24OreSanità, 1-7 aprile 2008) conferma, in tempi non sospetti, le condizioni snocciolate dalle “ipotesi” percentuali del collega Di Candido che conclude il suo intervento chiedendosi se queste istituzioni sono o non sono aziende. La domanda è palesemente retorica e la risposta è solo una. Tuttavia le normative attuali, la riforma del titolo V e la creazione di numerosi Servizi Sanitari Regionali non permettono nessun cambiamento ma solo toppe che tradizionalmente sono sempre peggio del buco.
Il collega cita il management, l’aziendalismo, il linguaggio economicistico e la governance termini tanto cari ai proseliti che difendono questa cultura come depositaria del vero ( lean, six sigma, total quality System, Value based procurement, H.T.A.) a cui andrebbero aggiunti: policy maker, medicina on demand (che volgarità!) che deve assolutamente e completamente essere sostituita con la medicina di iniziativa, AFT (che si rifanno alla datata e ancora vigente Legge Balduzzi), big data, back office, CRM (Customer Relation Management), patient joumey, CdC ( Case della Comunità o della Salute) e OSCO ( ospedali di comunità in contraddizione con la loro stessa definizione e che dovrebbero essere indicati come Ospedali di Distretto secondo quanto emerge dal DM77), service design, consultant, digital first, COT, UCA…
Inevitabilmente sarà necessario imparare, come già fatto nel passato, questo “relativamente nuovo” linguaggio (in attesa che qualcosa d’altro, ma di radicale, possa accadere) proprio perché le così dette “nuove” normative ( ACN, DM77, Metaprogetto, Circolare della Conferenza Stato-Regioni…) promettono una “stagione interessante e generativa per il top e middle management delle regioni e delle aziende” che però, come dimostrato dall’articolo del collega… non esistono. Nasce spontaneo il quesito di cosa “prometteranno” le innovazioni lessicali pesantemente controriformiste ai cittadini e ai professionisti. Non conoscere la terminologia burocratico “trendy” potrebbe creare frustrazione ed isolamento nei sistemi di decisione apparentemente molto complessi a causa di un continuo “rifornimento” per i piani alti di parole magiche inedite. Risalta sotto tutti i suoi aspetti una contraddizione paradossale non facilmente risolvibile: convivere ed operare (da anni ed anni) con enti “inesistenti” significa, come ripete da tanto tempo un nostro notissimo “autore”, generare contraddizioni su contraddizioni in sanità fenomeno che inevitabilmente crea una regressione professionale tale che probabilmente fa toccare ormai il suo temuto punto di non ritorno…
Una possibile “quasi riforma radicale” per le PHC (Primary Health Care) cioè per le cure territoriali è stata presentata al convegno/evento “Sopravvivere per vivere: cosa abbiamo imparato dall’esperienza Covid. Prospettive future” celebrato il 24 settembre 2022 a Verona e di cui ha parlato anche QS il 3 ottobre scorso.
La “quasi riforma radicale” descritta tiene conto di tre elementi fondamentali pur ostacolata delle normative vigenti e legislativamente “cogenti” (Titolo V, Aziendalizzazione, SSR, Conferenza Stato-regioni, sanità amministrata …):
- una posizione di discontinuità alternativa per le Alte Dirigenze Ausl e gli Assessorati Regionali con funzioni di garanzia o di authority dei valori fondamentali del SSN;
- il ritorno ad un SSN unico ed unitario con una posizione di convenzionamento in libera professione e libera scelta per i mmg;
- una completa autonomia periferica territoriale anche gestionale ed economica dell’insieme degli attori socio-sanitari che operano sul territorio ( medici, infermieri, specialisti, servizi di riabilitazione psico-neuro-motori innovativi, servizi territoriali, servizi sociali, servizi educativi, servizi socio sanitari, componenti del terzo settore, imprese generatrici..), dei percorsi collegati anche con i servizi ospedalieri, dell’intero processo decisionale e del governo clinico agevolati da una guida “di servizio” denominata provvisoriamente “collegio del territorio” che comprende eventualmente un ricollocamento di risorse umane di AUSL e Assessorati nelle varie aggregazioni territoriali di AFT o di NCP.
Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)
FISMU (Federazione Italiana Sindacale Medici Uniti), Regione Emilia Romagna
L’irresistibile ascesa della medicina amministrata
Gentile Direttore,
alcuni articoli gestionali/organizzativi pubblicati in questo periodo su QdS riconfermano l’ineluttabilità di una medicina, soprattutto di base, fondamentalmente amministrata (ACN, Comunicazione della Conferenza Stato-Regioni, DM77, Metaprogetto). Nello stesso tempo non è dato sapere, eccezion fatta per l’ACN, se vi sia stato un preliminare confronto tra le parti prima della loro pubblicazione.
La frenesia di mettere a disposizione nel più breve tempo possibile un impianto strutturale a favore del PNRR ha creato, inevitabilmente, importanti difficoltà di metodo e di merito aggravate dalle note contingenze globali.
Il primo collo di bottiglia è rappresentato dalla modifica del titolo V che giustifica la prevedibilità ex-cathedra delle autonome azioni regionali. Operativamente, culturalmente e cognitivamente coloro che gestiscono il potere decisionale sanitario sono sempre le stesse persone da decine di anni.
Riforme radicali, innovazioni, strategie assistenziali territoriali tarate sul lungo-medio periodo che non esitino solo in conto capitale ma che sappiano dare un senso ed una visione all’essenza del curare e del prendersi cura restano evanescenti nei testi calati dall’alto che appaiono troppo lontani dalla professione agita quotidianamente.
Sorgono di conseguenza numerose criticità.
Nonostante i lunghi decenni di formazione che hanno visto come discenti proprio i componenti delle Alte Dirigenze Ausl, oggi si richiede alle stesse dirigenze di applicare una abilità che non sono riuscite ad esperire in tanti anni di apprendimento. Manca quella giustizia e quella prudenza che alla fine sa scegliere (superando i tempi ed i legacci burocratici) percorsi giusti e utili per gli assistiti e per i professionisti. E’ lecito dubitare che tutta questa formazione possa essere servita a poco se non a rispondere ad una esigenza/bisogno regionale economicistico e non assistenziale che alla fine ha dimostrato il suo mesto epilogo fallimentare.
Alcuni pensano che la cura o il prendersi cura debba basarsi, per questioni funzionali all’efficienza ed efficacia amministrativa, fondamentalmente su una “medicina/sanità di iniziativa” e che le persone debbano essere classificate in funzione delle patologie. In caso di necessità possono così essere coinvolte in iniziative create ad hoc (educazione sanitaria, stili di vita adeguati, controlli periodici). Questa argomentazione può avere qualche senso ma difetta in un elemento fondamentale collegabile all’essenza ontologica della malattia e delle cure che sancisce una vera dipendenza dell’uomo dall’accudimento che durerà per tutta la vita. Non si può escludere de facto una medicina di “attesa” o di “opportunità” senza correre il pericolo di creare gerarchie ragionieristiche avulse da elementi valoriali sperimentati dalle persone sofferenti accumunate dalla dipendenza e dalla fragilità insite nell’antropologia. Non saranno certo le strutture in conto capitale a poter affrontare un problema cosi pervasivo e alla fine mai risolutivo.
Forse solo il medico autore, esperto, scelto liberamente con fiducia ed in grado di costruire un ambiente assistenziale comunitario può affrontare opportunamente la questione. Nell’ambito della medicina di base, un medico autore e autonomo ha l’opportunità di raggruppare persone ammalate (non stratificazioni di casi patologici), procedere poi con una analisi intelligente e umanitaria delle esigenze e dei bisogni da soddisfare financo sistematicamente in caso di necessità. Questo compito non può essere affrontato dalle Alte Dirigenze e dalle Istituzioni da queste gestite per motivazioni già ricordate ma soltanto dal mmg, esperto del proprio territorio che co-opera con tutti gli attori socio-sanitari e con i pazienti e che eventualmente potrebbe usufruire di ulteriori ausili tipo l’affiancamento o il tutoraggio professionalizzante. Il medico di medicina generale sviluppa nel tempo anche una abilità particolare nei sistemi di comunicazione con i propri pazienti e nella interazione con le associazioni di volontariato e del terzo settore estremamente utili per affrontare la complessità delle singole persone ammalate o dei loro contesti familiari.
Per definizione e secondo la normativa in atto il mmg resta concettualmente, operativamente, fiduciariamente ed esperienzialmente il primo sportello di entrata nel SSN. Il professionista che ha un rapporto specifico medico-paziente con il proprio assistito può consigliare percorsi semplici o complessi in merito alle problematiche emerse dal processo diagnostico. Questi percorsi trasversali al territorio, ai servizi, al terzo settore e all’ospedale devono essere ben percorribili in tempo reale e ben riconoscibili.
L’organizzazione territoriale deve quindi essere affidata ai professionisti che operano sul campo quotidianamente come medici “autore”, autonomi, volontariamente associati secondo affinità pattuite. Tutto ciò comporta l’eliminazione degli ambiti territoriali o obbligatorietà di quartiere. Un aggregazione affiatata che si sceglie autonomamente senza limiti di incentivazione o di numero di aderenti ( compresi gli affiancamenti e i tutoraggi) è in grado di risolvere problematiche organizzative, logistiche, di governo clinico, di copertura territoriale, di co-operazione con i servizi, con l’ospedale con il terzo settore.
I bisogni logistici dei professionisti per forza di cose dovrebbero essere, nella maggior parte dei casi, complesse, ampie, gradevoli e in grado di accogliere molti sanitari. Dovrebbero contenere direttamente al loro interno le strutture intermedie, ben inserite nei territori, essere reali punti di riferimento per la popolazione, in grado di poter reperire risorse adeguate ( miste pubblico-privato-terzo settore), ecc. E’ di tutta evidenza che questo sistema organizzativo richiede massima autonomia gestionale delle professionalità territoriali ed in particolare della medicina generale. Alle Alte Dirigenze dovrebbe essere affidato un ruolo alternativo di garanzia relativa ai valori principali del SSN: universalità, equità, accesso alle cure, trasparenza.
Infine una tematica che richiede particolare attenzione e che giustifica l’organizzazione territoriale descritta: il cambio generazionale. In particolare va evidenziato il cambio di genere dei medici di medicina generale. Le “mediche” sono in maggioranza e stanno rapidamente popolando la professione di base. E’ necessaria ancor più di prima una riforma che permetta di soddisfare esigenze professionali e personali che possono essere affrontate solo da gruppi aggregati affiatati e basati su accordi pattizi liberi in grado di regolare le relazioni tra “dottoresse autrici e autonome” all’interno di un sistema di welfare di comunità.
Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS), FISMU-Emilia Romagna
11 ottobre 2022
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