La sanità cambierà nel segno dei sindaci?
29 MAR - Gentile Direttore,
il collega e professore Ivan Cavicchi, come tutti i pensatori che si rispettano, ci sorprende di nuovo con un “pamphlet” che forse si potrebbe anche considerare un “divertissement” per evidenziare come questo testo possa essere anche divertente tanto che, forse anche solo per un momento, può allontanare dai colleghi le inquietudini e le contraddizioni generatrici probabilmente di pensionamenti precoci, sfiducia, disinteresse generale, burnout, depressioni come se non restasse altro che piangere per citare un noto film di Massimo Troisi.
Analisi e commenti al Forum di QS “lanciato” dagli stessi Ivan Cavicchi e Cesare Fassari sono già stati estesamente illustrati ed approfonditi da tanti autori. Ogni pezzo trascinerebbe poi ulteriori commenti ma in questo modo si rischia di non raggiungere mai una visione compossibile.
Saremo comunque in grado di sciupare l’occasione della pandemia, occasione storica irripetibile, per non cambiare nulla? Certamente sì. Alcune formalità sono state messe in atto in campo nazionale e quindi potenzialmente potrebbero raggiungere gli obiettivi (Usca, Piano Vaccini, Generale Figliuolo… ) manca però la materia regionale e locale per costruire le funzioni e i processi riformatori, i passaggi da formalità ad un'altra formalità creando così un movimento che riesca sempre ad adattarsi alle contingenze così da concretizzare possibilità concettuali e relativi modelli.
Recuperare potenzialità ed attività autonome, organizzate e vitali non sarà facile.
Occorre recuperare i fondamentali (equità, ascolto, co-operazione, abolizione delle difformità professionali e assistenziali, recupero di un rapporto fiduciario con i professionisti …) più volte attaccati dal desiderio irrefrenabile di spingere oltre ogni limite la para-subordinazione protocollare tanto che ogni giorno sembrano moltiplicarsi compiti incomprensibili in una ridondanza ripetitiva fredda e senz’anima.
Gli insegnamenti (Peppone e Don Camillo) che emergono dalla nebbia del “mondo piccolo” che trasforma gli elaborati dei norcini in culatelli “supremi” non pare aver prodotto apprendimenti adeguati al periodo Covid, e in prospettiva, al post Covid che ognuno di noi si augura imminente. Una regione che ha rischiato di perdere le elezioni (100.000 voti di differenza) dovrebbe preoccuparsi immediatamente di riscattare le criticità sanitarie sui fondamentali.
Una regione come questa non potrebbe permettersi comportamenti che richiamino una arroganza gestionale imponendo alla città commissari che provengono da altri territori e che hanno, in pieno periodo di prima ondata pandemica, sostituito completamente tutta l’alta dirigenza dell’AUSL senza che, non solo i cittadini, ma tutto il personale dipendente e convenzionato sappia il perchè. Qualcuno sostiene che il Covid cambierà il mondo sanitario ma questo non pare corrispondere al vero se, in piena pandemia, si annuncia che l’obiettivo principale delle alte dirigenze è l’unione tra azienda territoriale e ospedaliera per altro concetto molto datato e addirittura frantumato dai noti eventi pandemici. Non dovrebbe nemmeno accettare che i professionisti del territorio non conoscano i “loro” alti dirigenti né sappiano come sia organizzato l’organigramma-funzionigramma della “loro” azienda.
Così come non dovrebbe capitare, in un momento come questo, che manchi da tempo il titolare della Direzione del Distretto in grado immediatamente di rimediare alle forti criticità lasciate in eredità dalla pregressa gestione e dalle fasi covid.
Queste carenze creano forti difficoltà ai colleghi della medicina generale compressi dalle loro responsabilità deontologiche e professionali e dal sincero desiderio di contribuire alla campagna vaccinale resa però quasi impraticabile dall’accavallarsi di notizie sui media che precedono le informative inviate ai professionisti stessi e dalla mancanza di un accordo locale chiaro non tanto per i compensi ( in questo momento è molto più importante il concetto di ruolo/funzione a fronte dello slogan orario/salario ) ma per avere almeno un documento che funzioni anche come percorso stabile pur nella considerazione delle variabili quotidiane inevitabili.
Spesso si sostiene che il modello gestionale vincente nei sistemi complessi si dovrebbe basare su una governance vs government. Nella pratica ciò che avviene è un rafforzamento del termine storico di governance che richiama la gestione “privata” di un’azienda ed una sostanziale sovrapposizione dei due termini verso gli obiettivi dettati da rigidità protocollari. Negli anni è stata persa quasi completamente la cultura della relazione e del co-operare così che l’ansia e l’ossessione del controllo incrementa le contraddizioni e genera la negazione assoluta di una minima compossibilità.
Plastico esempio della distanza che si è creata tra professionisti ed alte dirigenze aziendali è rappresentata dalla delibera regionale del 2016 sulle Case della Salute emblema della regressione professionale e culturale che ha in pratica bloccato ogni possibile evoluzione innovativa futura. Di fatto le Case della Salute, salvo rarissime eccezioni che godono di notevole autonomia, sono sprofondate nella palude creata dalla stessa normativa che doveva riordinarle ed uniformarle.
Solo la testardaggine dei sindaci dei piccoli comuni riesce, in casi fortunati, a scardinare il garbuglio normativo “imponendo” politicamente sperimentazioni che si possono trasformare in “piccole riforme” per quei territori (gruppi, cambi generazionali, prossimità e capillarità, cambio di genere nella professione, numero dei componenti che sono in grado di progettare modelli e innovazioni stabili).
I cahiers de doléances sono, come si diceva inizialmente, solamente esercizi letterari. Proposte e progetti di riforma, soprattutto su QS, sono stati esposti innumerevole volte. Per intravedere qualche pallida luce che possa somigliare ad una riforma occorre, per il momento, affidarsi a sperimentazioni controllate da sindaci innamorati delle proprie piccole comunità.
Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria) FISMU (Federazione Italiana Sindacato Medici Uniti), Regione Emilia-Romagna
Articolo pubblicato sul Quotidiano della Sanità il 29 marzo 2021
Medicina di base, aggregazioni territoriali e sistema vaccinale in 3° ondata
Il Covid ha palesato come il confronto pluriennale culturale in merito ad una necessaria revisione del sistema assistenziale sociale e sanitario territoriale a favore del decentramento di servizi sanitarie sociali in strutture che siano in grado di poter offrire tutte le risposte ai bisogni territoriali, non sia servito proprio a nulla. La prima ondata della pandemia ci ha colti di sorpresa ma comunque qualcuno ha sostenuto che siamo stati i migliori (…a tutt’oggi circa 99.000 morti come se una città come Ancona o Novara venisse cancellata dall’atlante … e il numero di medici deceduti sul campo -260- resta quello più grande d’Europa). Purtroppo c’è stata anche la seconda ondata ed ora siamo in piena terza ondata.
Una legge di
riforma del SSN con particolari indicazioni per il territorio, pur disattesa,
c’è (2012), non è stata abrogata anche se, oramai, dopo il Covid potrebbe
mostrare tutta la sua vetustà. Nel frattempo la società ha cavalcato
velocemente il tempo e la politica
sanitaria non è stata in grado di garantire una progressione corrispondente ai
professionisti “tutori della salute delle persone” e di conseguenza ai servizi.
Più o meno palesemente la visione ospedalocentrica (non loderemo mai abbastanza la prova di straordinaria professionalità che è stata offerta alla cittadinanza da parte di tutti i lavoratori coinvolti ad ogni livello) resiste con forza. L’ospedale dovrebbe svolgere il ruolo di punto di riferimento per il proprio territorio in merito alle acuzie e per gli approfondimenti di 2° e 3° livello ma per forza di cose (mancato riordino delle cure primarie) l’ospedale continua ad occuparsi di patologie croniche e la co-operazione con la medicina di base e i servizi sociali risulta ancora complessa (salvo rare eccezioni). L’esternalizzazione al privato o alle società di servizi accreditate ha permesso di allargare l’offerta e l’opportunità di poter rispondere ai bisogni di salute sulle patologie non trasmissibili (es.: tumori, patologie cardiovascolari) ma nello stesso tempo ha consentito sostanziali tagli di posti letto nel pubblico improvvisamente resi evidenti dalla pandemia covid: in Italia nel 2012 vi erano 12,5 posti letto in terapia intensiva per 100.000 abitanti mentre la Germania aveva 29,2 posti letto per 100.000 abitanti. Non dovrebbe più capitare che scellerate scelte etiche debbano sottostare alla scarsità di risorse causate da pregresse dissennate abolizioni di presidi territoriali che rappresentavano, anche nei nostri territori, punti di riferimento eccellenti per prestazioni e gradimento. Una recente indagine relativa ai primi 8 mesi del 2020 ha evidenziato come ad ogni posto letto in meno per 1000 abitanti è associato un 2% in più di aumento della mortalità generale (il dato comprende sia la riduzione dei posti letto in terapia intensiva che negli altri reparti ospedalieri coinvolti o meno nella pandemia covid. Anaao Assomed 2021).
Bisognerebbe ripartire da qui, cambiare passo da subito, modificare
radicalmente ciò che deve essere cambiato. Ripensare
a percorsi di cura assistenziali territoriali periferici che in tempi celeri possano essere sperimentati effettivamente
nei quartieri della città e nelle zone rurali/montane superando monotoni e
retorici modelli autoreferenziali sconfitti dai cambiamenti sociali o addirittura paralizzati da se stessi cioè dalle stesse delibere che li proponevano come innovazione in risposta ai bisogni dei
cittadini e alle deliberazioni delle Conferenze socio-santarie provinciali (es.:
Del Reg. n. 2128 del 5 dicembre
2016). A volte
paradossalmente le iniziative così dette di innovazione del territorio vengono
dalle stesse voci che hanno partecipato a ridurre quei presidi territoriali
molto apprezzati dalla popolazione.
Le
aziende Ausl e Ao, tutt’ora concentrate verso l’obiettivo principale della
costruzione dell’azienda unica (progetto iniziato molti anni fa desueto anche
dal punto di vista economico), avrebbero un compito superiore se si dedicassero
alla salvaguardia dell’universalismo delegando il completo processo decisionale
e l’operatività ai professionisti e alle loro comunità. Il territorio in
autonomia può già da ora assumersi il compito di sorvegliare i processi di
screening, di prevenzione, di diagnosi, cura, la domiciliarità, l’attività ambulatoriale
di attesa e/o attiva, l’organizzazione operativa in team e riabilitazione così
come può governare eventuali ospedalizzazioni che considerino, per la maggior
parte dei casi, il reinserimento nel territorio.
In
periodo covid la medicina generale meglio conosciuta come medicina di base
sarebbe di gande aiuto e servizio alla popolazione (partecipazione dei Medici
di Base al processo vaccinale)
se potesse svolgere il proprio
ruolo e la propria funzione ambulatoriale e domiciliare di routine.
I
centri vaccinali aziendali che hanno
dimostrato efficienza ed efficacia
dovrebbero senz’altro essere potenziati
ed affidati non ai medici di
base ma ad altri settori della medicina generale (
medici di medicina generale di continuità assistenziale o guardia medica,
medici di medicina generale USCA, medici di medicina generale Corsisti, medici
di medicina generale della Medicina dei
Servizi, medici di medicina generale con
Contratti ad Hoc, medici di medicina
generale della Medicina Penitenziaria,
medici di medicina generale della
Emergenza Territoriale, medici di medicina generale Volontari ).
La
platea dei medici vaccinatori potrebbe quindi essere vastissima e più che
sufficiente per raggiungere gli obiettivi che il Ministero della Sanità e gli
Assessorati alla Sanità hanno dichiarato. In caso di necessità le prefetture
potrebbero concordare con le AUSL il reclutamento di medici pensionati
specialisti o di medicina generale.
Tutto
ciò potrebbe limitare la pratica degli annunci dissonanti e la confusione che può
rischiare di generare conflitti tra professionisti e
assistititi.
La
retorica può nascondersi nelle pieghe dei così detti documenti ufficiali (anche
nei protocolli di intesa nazionali che stabiliscono il coinvolgimento dei
medici di medicina generale nella campagna vaccinale). I ricercati elenchi di
dichiarazioni di intenti delle premesse
burocratiche dei vari accordi possono
avallare disegni molto più prosaici di
quelli annunciati così che, invece di semplificare o risolvere effettivamente
le problematiche che vorrebbero
eliminare, nella pratica, complicano orrendamente il fluire naturale delle operatività tipiche
del medico di base che potrebbe occuparsi di quelle innumerevoli forme di patologie
che tutt’ora esistono e che il covid pare aver fatto evaporare.
Infatti
le liste d’attesa relative ai controlli periodici delle patologie croniche sono
significativamente aumentate. Se il medico di base viene distolto dalle sue
funzioni per occuparsi di vaccinazioni chi curerà le persone?
I
dati derivati dalle rilevazioni sulla pandemia (guariti, vaccinati, contagi,
ricoverati e decessi) da più di un anno, quotidianamente, mostrano come la
fragilità conviva con noi e come stia crescendo il fenomeno dell’indifferenza
(involontaria) nei confronti dei problemi degli altri causata a sua volta da un
timore generalizzato (di morire).
E’
certamente vero che tutte le categorie esigono per se stesse (in quanto si
ritengono fondamentali per il funzionamento sociale) il vaccino con una
prelazione nei confronti di altri gruppi.
Pare che durante la campagna vaccinale vi siano stati anche condotte di privilegio.
Quel pezzo di paese che pensa di dove
rimanere ancora per molto tempo nell’isolamento a causa della paura potrebbe
vedere la parte di persone vaccinate, senza che ne avessero necessità
prioritarie, come usurpatori di un diritto. Tutto ciò potrebbe scatenare solchi
e rabbie profondissime se i principi di solidarietà sociale e di empatia venissero
travolti.
E’ doveroso a questo punto avviare sperimentazioni coraggiose perchè nella sanità, oggi, se queste prove sono reali e sollecite, possono rappresentare la base o il denominatore per progettare una città completamente diversa che si rialza dalle proprie macerie e che, come negli anni 50 e 60, è in grado di generare un nuovo miracolo economico e sociale.
Un
sistema assistenziale periferico di riferimento (e quindi autorevole) di
quartiere o di territorio così come è stato proposto innumerevoli volte cioè
completo, “grande”, bello, adatto per l’attività ambulatoriale ma anche
residenziale per le patologie della senilità e con letti osservazioni (Ospedale
di Comunità) anche in pandemia covid avrebbe
potuto fare la differenza.
In questo momento di Covid, dove la vaccinazione delle persone è l’obiettivo principale, mancano strutture autonome ed adeguate al compito (salvo rare singolarità) ma la medicina di base può attualmente svolgere un importante compito di prossimità accogliendo la sensazione di allontanamento dal SSN manifestato da numerosi assistiti convinti che il loro problema non interessi a nessuno. I medici di base punti di riferimento delle loro comunità sono in grado di pretendere dalle istituzioni informazioni precise e dettagliate. In virtù delle indicazioni possono poi proporre, come “tutori della salute delle persone”, aggiustamenti e modifiche delle comunicazioni affinche’ i cittadini possano percepire che il “loro” problema è stato preso in carico e che il professionista si adopererà con responsabilità decisionale affinchè ogni assistito possa conoscere in quando potra’ essere vaccinato, in che luogo, da chi e come. Inoltre il rapporto fiduciario che lega assistito e medico di base permette di rassicurare l’assistito che la platea dei vaccinatori è tale che i vari gruppi target verranno vaccinati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. In un momento dove molti sono costretti a rinunciare a qualche cosa sviluppando timore o rabbia repressa poter contare su un medico di base di riferimento significa essere incoraggiato e rincuorato che i comportamenti di protezione individuale ben noti saranno più che sufficienti a proteggerli fino al momento della vaccinazione.
Questa condotta professionale, allo stato attuale della pandemia in 3° fase, può rappresentare una effettiva partica del farsi carico e del prendersi cura dell’assistito. Da questo punto di vista vanno abolite tutte quelle comunicazioni o quegli annunci che non spiegano nulla di quello che le persone desiderano sapere o pensare. Occorre che anche la politica locale consideri necessario trovare soluzioni ai problemi delle persone che attendono di essere vaccinate. Compresi quelli emotivi e psicologici. Se mancano i vaccini occorre dichiararlo apertamente e garantire la data in cui saranno disponibili perchè la politica è l’arte di fare accadere le cose e queste accadono se le intelligenze e le competenze si uniscono. In questo momento nessuno puo’ dirsi estraneo e mai come ora la scialuppa è una sola e deve contenere tutti.
Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria) FISMU (Federazione Italiana Sindacato Medici Uniti)
Regione Emilia-Romagna 07 marzo 2021
SALUTE: INVESTIRE SUI SERVIZI TERRITORIALI NELLA FASE POST-COVID (Webinar 8 febbraio 2021)
LA PRODUZIONE DELLA CURA
Il webinar si propone di
affrontare alcuni temi che in qualche modo sono collegati alla voluminosa sfera
del Welfare di Comunità.
Questa argomentazione non è di per se inedita, in efetti alcuni autori fanno risalire l’inizio di questo modello collaborativo e partecipativo nel periodo del nostro Rinascimento Italiano.
Oggi l’aspetto che potrebbe
apparire come effettivamente innovativo corrisponderebbe (necessariamente) alla
realizzazione delle numerose argomentazioni anche prodotte anche in tempi molto
recenti ben coscienti delle enormi influenze positive che la tecnologia in
ambito sanitario può aver fatto intravedere durante la pandemia senza
dimenticare le conseguenze sociologiche a volte non sempre favorevoli sulle
comunità e sulle loro relazioni interne.
Quando si sostiene che occorre
investire in sanità (una volta superata questa maledetta pandemia) significa
che finalmente si pensa di considerare i servizi sanitari territoriali e i
presidi territoriali talmente importanti da diventare ora il denominatore
essenziale e fondamentale per darle il via al nostro nuovo rinascimento
sociale, economico e culturale.
Peccato che sia stata necessaria
una pandemia per fare ricredere i fautori della chiusura dei presidi sanitari
territoriali sovrastanti nei gli ultimi 20 anni così come nello stesso periodo
non si è esitato a ridurre i finanziamenti per il territorio generando
preoccupanti differenziazioni professionali e assistenziali. In effetti avere
il primato di Case della Salute non significa aver avuto la necessaria
attenzione verso una equità di cura ai cittadini e di opportunità ai
professionisti.
Nello stesso tempo occorre il
coraggio di rigenerare un nuovo rapporto di fiducia tra professionisti e
aziende che si è ormai sfilacciato in questi ultimi 20
anni e che è possibile solo se si compie un’autocritica da parte dei decisori e se si individua una personalità che possa
svolgere un ruolo di mediatore culturale tra aziende e operatori sessi che
appaiono molto sfiduciati.
Riprendendo il discorso iniziale
per poter investire è necessario avere progetti e prima di questi avere idee
che possano generare processi decisionali autonomi, innovativi e
contestualizzati e la sussidiarietà circolare è per sua natura orizzontale e
non verticale.
Le aziende Ausl e Ao tutt’ora
molto concentrate all’obiettivo principale della costruzione dell’azienda unica
dovrebbero svolgere un compito di salvaguardia dell’universalismo delegando il
processo decisionale e l’operatività ai professionisti e alle loro comunità.
Lo strumento che potrebbe
permettere quel veloce campo di passo ormai diventato irrinunciabile per essere
innovativi nell’assistenza sanitaria territoriale è la sperimentazione.
La sperimentazione è definita
nello spazio e nel tempo e può avvalersi, soprattutto in periodi emergenziali o
pandemici, di deroghe o normative speciali che possano facilitare la
sperimentazione stessa affrancandola da alcuni limiti già ampiamente superati
dalla rapida evoluzione sociale (basti pensare che l’ACN Accordo Collettivo
Nazionale che norma la medicina di base attuale si richiama sostanzialmente ad
una regolamentazione del 2005). Concetti già considerati dal dibattito
culturale da decine di anni presentati come appena nati, carente creatività,
comunicazioni autoreferenziali e ascoltate per troppo tempo non aiutano la sperimentazione.
E’ possibile a questo punto, con
l’intento di semplificare, elencare, in modo senza dubbio incompleto, alcune
situazioni pratiche che richiederebbero percorsi sperimentali più che
solleciti:
- Può
essere giunto il momento di rivedere e riconsiderare i concetti di capillarità
e di prossimità nel senso di un potenziamento di questi stessi principi
collegandoli all’offerta di servizi e all’orario di fruibilità. - Da
questo punto di vista diventa quindi
fondamentale la promozione dell’istituto modulare nodale conosciuto come
“Medicina di Gruppo” prevedendo gruppi costituiti da un numero consistente di
medici e personale. - I
gruppi devono potersi scegliere al fine di comporre squadre affiatate ed in
grado cosi di produrre iniziative innovative assistenziali - Le
“medicine di gruppo” così costituite possono entrare in concorrenza tra loro
per quanto riguarda la qualità del servizio - Per
generare servizi di eccellenza i professionisti devono poter recuperare
completamente un ruolo centrale e autonomo nel processo decisionale così da
poter rappresentare reali punti di riferimento le loro rispettive comunità - Team
e squadre di professionisti efficienti ed efficaci si possono ottenere se si
supera il concetto normato dall’ACN del 2005 di “ambito territoriale”
rappresentando un territorio oggi superato; l’abolizione di questi feudi
agevola la creazione di quel capitale umano e professionale in grado di
progettare e innovare l’organizzazione senza desertificare le aree oggetto di
assistenza sanitaria - La
medicina generale territoriale sta vivendo in questi anni un completo viraggio
di genere; quasi tutti i medici di base che si diplomano/specializzano in
questi anni sono donne che presentano necessità e bisogni organizzativi legati
ad una nuova modalità del prendersi cura che differenzia questa professione
oggi dalle generazioni precedenti. Questa modificazione sociale che sta
avvenendo proprio sotto inostri occhi depone a favore della formazione di
medicine di gruppo composte da molti/e professionisti/e - L’investimento
e la fiducia che questi gruppi devono poter percepire nettamente da parte delle
comunità e delle istituzioni si deve manifestare anche con il sostegno economico che per queste
organizzazioni si realizza con il sistema incentivante che attualmente non favorisce o non incoraggia la progettazione
di innovazioni assistenziali nonostante vi siano schemi e studi che possano indicare chiaramente quante
potrebbero essere le risorse necessarie per ogni singolo componente del team o della squadra.
Bruno Agnetti
La professione del MMG raccontata agli studenti laureandi in Medicina UniPR-Comunicazione-
Clicca sul link per vedere le slide mostrate dal Dott. Agnetti ai laureandi di Medicina
La professione del MMG raccontata agli studenti laureandi in Medicina UniPR
Clicca sul link di seguito per vedere le slide mostrate dal Dott. Agnetti durante la prima lezione del suo corso ai laureandi di medicina.
Se l’orologiaio non sa che ore sono, che orologiaio è?
Articolo a cura di Bruno Agnetti
Pubblicato su Quotidiano Sanità l'8 luglio 2019
08 LUG - Gentile direttore,
in questi giorni è iniziato il vero e tanto atteso cambio generazionale nella medicina generale territoriale (Medici di Base). Il fenomeno procederà in modo clamoroso in questi anni per trovare un suo culmine (dati Enpam) nel 2022. Da qui ad allora molte cose potrebbero cambiare anche in considerazione delle serpentiformi derive nazionali, regionali ed aziendali associate ad improbabili frottole di alcune OOSS narrate quasi quotidianamente.
Questo show sdegnoso del dibattito professionale in atto da anni (Dentologia, Questione medica, modificazioni sociali e paziente diventato “socio di maggioranza”, riforma, nuovo paradigma e conseguenti modelli, legislazione tutt’ora vigente, orrende confusioni tra team, microteam, équipe, governo clinico, processo decisionale, welfare di comunità vs welfare aziendale, ambulatorio vs studio…) continua ad erodere la credibilità dei professionisti e delle istituzioni trasformandole in colossi dai piedi d’argilla incapaci di sfruttare la notevole produzione culturale professionale disponibile ( gratuita). Nello specifico tutto ciò coinvolge in profondità il riordino delle cure primarie. A volte un maldestro “copia ed incolla” impastato con i “generatori automatici” di piani sanitari, delibere, decreti o similari partoriscono veri mostri normativi orientati alla maggiore invariabilità possibile.
Sfiducia, sospetto, pessimismo nei confronti di possibili progetti ed innovazioni emerge dagli atteggiamenti e dalle riflessioni anche di molti giovani colleghi in procinto di affrontare l’avventura della “convenzione” tanto sospirata.
E’ preoccupante questa delusione per altro costituita da tante piccole opacità territoriali insignificanti se prese da sole ma devastanti se sommate tra di loro e che hanno un minimo comun denominatore: l’incapacità all’ascolto mai compensata da una connessione ininterrotta ed inarrestabile. Sarà forse per questo che alcuni AA sostengono che anche le prassi più protocollari non possono esimersi dalle “relazioni” pena il loro fallimento operativo. Un Percorso (protocollo) Diagnostico Terapeutico Assistenziale PDTA non ha futuro se non prende in seria considerazione l’aspetto relazionale con il paziente-esigente, il contesto, la sua famiglia e gli operatori sanitari territoriali stessi tra loro (PDTA-R).
In questo caso solo un attività assistenziale profondamente ancorata al paradigma bio-psico-sociale può garantire le competenze olistiche (orologiaio) essenziali per una medicina contemporanea che se spezzettata in modo super-specialistico tra le varie rotelline ed ingranaggi (attenzione alle malattie e non al malato) non permettono all’ orologiaio (medico) di conoscere nemmeno che ora è spolpandolo così di ogni caratteristica distintiva (es.: di essere punto di riferimento per la propria comunità ruolo, oggi, fondamentale per un medico di base che carica di senso il suo operare).
Senza questa base etica-dentologica la medicina si trova ad affrontare un ambiente culturale molto evoluto (nel bene e nel male), competitivo, aggressivo, in grado di coltivare rivalsa e conflitto.
Soprattutto il medico di base non può cadere in questo imbuto di contrazione spazio-temporale perché è in vita essenzialmente grazie ad un rapporto di fiducia e ad una relazione basata sul rispetto e sulla grande specializzazione di “comprensione” dei diversi punti di vista delle persone in ordine all’essenza delle cose ( es.: la vita, la morte, il dolore, la malattia, la gioia, il benessere, non sentirsi mai abbandonato, l’essere preso in carica o meglio per mano, il contare e poter dire la propria opinione su questi momenti della vita …).
Il medico di famiglia insieme a tutti i suoi collaboratori attori sanitari (team) di un territorio ben definito e sostenibile (non tanto e non solo economicamente ma nella relazione) non deve garantire un risultato (prestazione) a tutti i costi (chi può vantarsi oggi di conoscere la verità?) ma offrire un ascolto, una apertura, un confronto. Da questo modello organizzativo territoriale delle cure primarie fondato ad esempio sui principi del Welfare di Comunità derivano, per quel dato territorio, crescita sociale ed economica.
Ne consegue che il trasferimento del processo decisionale e la gestione dell’intero governo clinico a livello territoriale assicurerebbero quella riforma del riordino delle cure primarie che non disperderebbe la medicina basata sull’esperienza (anche per la memoria storica di quanto avvenuto nel SSN) e che verrebbe a supporto della grande competenza clinica delle evidenze dei nostri giovani colleghi. Da questo punto di vista l’affiancamento tra medici senior e giovani medici in procinto di convenzione così come l’organizzazione dell’operatività quotidiana in team grazie a briefing di programmazione e di confronto può rappresentare una strategia a basso costo e a grande impatto di qualità assistenziale con ricadute di grande impatto sociale (es.: per ospedali, PS, cronicità, professione…).
Il team durante il briefing di programmazione quotidiana ( ma lo stesso capita nell’affiancamento) sviluppa tutte le abilità relative all’ ascolto, al confronto, alla considerazione dell’altro e all’autocritica tale da produrre anche un apprendimento sempre aggiornatissimo e difficilmente dimenticabile. Il sistema può interessare tanti colleghi ma non può essere gradito a tutti così come l’associazionismo può essere ricercato da alcuni mmg ma evitato da altri.
L’esperienza di questi anni ha forse insegnato che le aggregazioni di mmg dette “complesse” per poter funzionare esigono senz’ombra di dubbio un interesse culturale e un atteggiamento di buona volontà da parte dei colleghi interessati ma resta fondamentale che i mmg debbano poter sviluppare “in proprio” l’intero processo decisionale in modo da correggere ed affinare eventuali necessità contestuali a quel territorio e a quel gruppo di mmg (es.: chiedere la collaborazione di cooperative sociali che garantiscano prestazione di servizi ottimali secondo le necessità, gli obiettivi e la programmazione definita dai mmg).
Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)
FISMU ( Federazione Italiana Sindacale dei Medici Uniti)
Regione Emilia-Romagna
08 luglio 2019
© Riproduzione riservata
Welfare di comunità e riordino delle cure primarie
Articolo a cura di Bruno Agnetti
Pubblicato su Quotidiano Sanità il 20 maggio 2019
20 MAG - Gentile Direttore,
il dibattito sulle modifiche dei paradigmi storici della professione coinvolge fatalmente anche i colleghi che si interessano di ri-organizzazione della medicina generale territoriale. Negli anni sono state pubblicate numerose ipotesi/proposte di “riordino” dell’attività medica di base anche “pronto uso” finalizzate soprattutto a ricomporre il distacco esistente tra le richieste di benessere delle persone e il sistema sanitario di offerta quanto mai superato. Il tempo, che pare essere galantuomo, ha dimostrato (Balduzzi 2012; Patto della Salute 2014) che fino ad ora non è emerso nessun ragno dal buco dei ragionamenti della retorica ufficiale (la struttura dell’ACN è ancora quella del 2005 !).
Questo è comunque il campo dove ci si trova a zappare: continuiamo quindi con ostinazione a perfezionare di volta in volta il “nostro” progetto di innovazione assistenziale territoriale pur visionario.
E’ stato ampiamente argomentato su come la medicina nel suo complesso sia una disciplina composita in continua evoluzioni.
Secondo il paradigma bio-psico-sociale la qualità della vita insieme alla personalizzazione delle cure (gestione della complessità) sono diventati i parametri più importanti per determinare una validità assistenziale e la medicina generale, ancora oggi, svolge, pur a fatica, un ruolo fondamentale nel gestire questi criteri nell’ambito della domanda di salute e dell’offerta di sanità.
Per permettere al mmg di ritornare ad essere il principale attore della salute pubblica territoriale occorre ri-ordinare l’assistenza primaria con una riforma strutturale e una completa revisione dell’ ACN, secondo i dettami dei principi Wonca e del paradigma del Welfare di Comunità .
Il “welfare di impresa” consente ai lavoratori di una azienda di beneficiare di una assistenza sanitaria (parziale e a volte contraddittoria) e sociale che non ha il carattere dell’universalità ma è limitata ai dipendenti di quel brand con conseguenti vantaggi nella crescita, nell’efficienza e nella produttività per l’azienda.
Il “welfare state”, termine ancora valido teoricamente, aveva inizialmente la caratteristica dell’universalità e assicurava gratuitamente a tutti i suoi cittadini cure mediche, scuola e assistenza sociale ma, alla fine, ha mostrato il suo limite causato dalla dipendenza finanziaria. Il welfare state pur essendo un sistema creato per garantire una equità sociale in fede di una crescita di capitali considerati in espansione continua è diventato invece inesorabilmente sempre più povero a causa di una crisi della crescita monetaria associata ad un incremento “esponenziale” delle spese sociali e sanitarie e ad un aumento solo “proporzionale” della ricchezza finanziaria (attualmente stagnante e recessiva).
Questo divario influisce direttamente sul “valore” dell’equità sociale e può causare conflitti ed insicurezza diffusa. Un sistema ideato per i poveri non riesce più a rispondere ai poveri.
Il “welfare di comunità” può arginare gli squilibri del welfare state e quelli del welfare aziendale. Il paradigma del welfare di comunità si basa soprattutto sull’economia reale ed è in grado di assicurare pace sociale e aumento del senso di sicurezza. Prevede un coinvolgimento dei vari stakeholder (portatori di interesse) di una comunità che cooperano ed intervengono direttamente e responsabilmente nel “processo decisionale” per la progettazione di servizi in favore di quella comunità.
La cooperazione o “sussidiarietà” caratteristica dell’operatività del welfare di comunità è di tipo “circolare” ed è finalizzata a migliorare la qualità della vita ( bene comune) dei cittadini di un determinato territorio. Le istituzione pubbliche non intervengono direttamente nel sistema e nel processo decisionale ma operano affinché i vari portatori di interesse di un territorio possano organizzarsi e caratterizzarsi per l’appartenenza. Nel welfare di comunità il ruolo delle istituzioni diventa esclusivamente di garanzia, tutela e vigilanza sui valori messi in campo e sulle finalità dichiarate.
In una raffigurazione che comprenda un ipotetico triangolo toccato ai suoi vertici da un cerchio che possa rappresentare la sussidiarietà circolare dovremmo immaginare un vertice occupato dalle istituzioni, un vertice rappresentato dalla società civile e l’ultimo vertice presidiato dalle imprese generative in grado di procurare i finanziamenti necessari ma anche concretezza. In questo disegno organizzativo le cure primarie occupano il ruolo di leadership dell’intero sistema in grado di gestire completamente, a livello territoriale, il “governo clinico”.
Secondo alcuni autori riuscire oggi a progettare una innovazione organizzativa dell’assistenza primaria territoriale efficace potrebbe avere la stessa importanza dell’invenzione di un farmaco che sia in grado di curare l’epatite o il cancro oppure potrebbe essere un evento paragonabile allo sbarco sulla luna.
Tutta la convenzione per la medicina generale va ripensata come “patto per un welfare di comunità” uscendo dall’ambiguità rappresentata dall’organizzazione in distretti che continuano a proporre di fatto una logica ospedaliera applicata al territorio e alla medicina generale quando bisogni espressi e non espressi sono fondamentalmente diversi.
Sono necessari anche luoghi dove medici e operatori possano ritrovare, grazie al nuovo paradigma/modello, le radici del loro mestiere (etica, cultura, formazione, deontologia, integrazione ecc.) e dove gli assistiti possano diventare protagonisti con i professionisti dei percorsi preventivi, di educazione sanitaria, di cura e riabilitazione. In queste strutture la tecnologia e l’antropologia possono marciare di pari passo per ritrovare il vero senso della clinica e dell’assistenza.
Il senso dei percorsi assistenziali è dato soprattutto dai “valori”. Oggi gli aspetti etici e deontologici, professionali e sociali non sono più barattabili con ambigui progetti economicistici che, come insegna quel galantuomo del tempo, non hanno poi negli anni risolto un granché. Se si opera per produrre valore si potrà pensare anche ad una crescita professionale, sociale ed economica in caso contrario si affonda o meglio affondano coloro che non hanno risorse economiche proprie ma questo irrimediabilmente innesca insicurezza e conflitto sociale.
Occorre però che tutti gli attori salgano convintamente sulla barca sicura dei “valori”così da trasformare un mare periglioso (globalizzazione incontrollata) in opportunità, sicurezza, convivenza civile e pace sociale (valorizzazione della democrazia?).
Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)
FISMU (Federazione Italiana Sindacale dei Medici Uniti )
Regione Emilia-Romagna
20 maggio 2019
© Riproduzione riservata
Le cure primarie, il loro riordino e la deontologia del 3° millennio
Articolo a cura di Bruno Agnetti
Pubblicato su Quotidiano Sanità il 20 ottobre 2018
20 OTT - Gentile direttore,
il carteggio generato dagli articoli del Prof. Ivan Cavicchi ha coinvolto a fondo coloro che si occupano di organizzazione sanitaria. Il Professore e collega perdonerà se non verrà continuamente citato in questo semplice elaborato che vorrebbe argomentare, in particolare, di cure primarie e di assistenza territoriale.
Lo stesso dicasi per il Prof. Stefano Zamagni. La medicina generale, a 40 anni dall’istituzione del SSN, richiede una riforma generale. Oggi alcuni mmg mostrano disagio professionale che si manifesta attraverso la sfiducia verso ogni azione o ideazione di filosofia politica sanitaria. Quelli vicino alla pensione sono portati ad un disinteresse quasi accidioso.
Le nuove generazioni desiderano invece fortemente entrare in un “sistema lavorativo” convinti di approdare all’interno di una professione che svolga anche il ruolo di classe dirigente di questo paese.
Nella realtà potrebbero ritrovarsi improvvisamente inseriti in una organizzazione agonizzante che in breve potrebbe arrecare delusione. I cultori della materia hanno formulato numerosi progetti al fine di dare vita a un nuovo patto-contratto tra i medici professionisti della sanità territoriale, i cittadini e il Servizio Sanitario Nazionale basandosi su una deontologia contestualizzata e una organizzazione del lavoro dove “ruoli e funzioni” potessero avere più importanza in favore del bene comune.
La mancata attenzione a questi suggerimenti di rinnovamento ha invece legittimato, nel dibattito generale, le narrazioni relative all’esternalizzazioni e alle privatizzazioni, considerate addirittura modelli da imitare (Gruppi di Cure Palliative, CreG, Provider, iniziative di CA e di ospedalizzazioni domiciliari private ed altre proposte organizzative territoriali mutuate da esperienze nate oltre oceano in regimi assicurativi, strutturalmente diversi dal SSN italiano e protetti da brevetto).
A fronte di queste riflessioni vorremmo mettere a conoscenza dei suoi lettori alcune nostre riflessioni che le aghiamo alla presente.
Bruno AgnettiAlessandro Chiari
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) - Regione Emilia-Romagna
20 ottobre 2018
© Riproduzione riservata
Quale futuro per le cure primarie? (terza parte e ultima parte)
Articolo a cura di Bruno Agnetti
Pubblicato su Quotidiano Sanità il 20 aprile 2018
Le Regioni potrebbero
condividere con i professionisti azioni innovative
anche sperimentali (in particolare le Regioni che hanno
firmato il patto per le autonomie). Ecco quali iniziative si potrebbero avviare
come esempio di possibili moderni patti-contratti
20 APR - Le cure primarie territoriali oggi, in Italia, sono statiche, paludose paralizzate da processi decisionali in capo a Conferenze Territoriali fortemente autoreferenziali.
Altrove obiettivi specifici hanno prodotto discontinuità, cambiamenti ed investimenti, nuovi strumenti organizzativi, risorse non marginali finalizzate all’attività in team multi professionali, multidisciplinari e multisettoriali connessi con strumenti informatici ma organizzati in modo da prevedere modalità di contatto diretto essenziali per una reale gestione coerente e condivisa dell’assistenza.
Da questo punto di vista è necessario prevedere all’interno del tempo/lavoro dei medici e degli operatori sanitari una quota dedicata all’accesso e alla condivisione della complessità dei dati disponibili e al confronto diretto in team.
Il cambio generazionale prossimamente dirompente, volendo, potrebbe diventare un ottima occasione per il rilancio spontaneo a costo zero del SSN. La competenza professionale delle nuove generazioni di medici può garantire una moderna qualificazione dell’assistenza in grado di far fronte alle sfide imposte dall’epidemia della cronicità sia per le innegabili abilità cliniche ma anche per una corretta visione olistica-antropologica della salute umana.
La paradossale ipotesi del task-shifting ossia il trasferimento delle competenze del medico ad altre figure professionali sanitarie confligge rovinosamente con la preparazione professionale delle nuove generazioni di medici di medicina generale formati ai principi di una disciplina che praticano quotidianamente e che conoscono molto bene nella specificità dell’ approccio epidemiologico, clinico e relazionale (Wonca Europe).
Quando si attiveranno gli AAIIRR (Accordi Integrativi Regionali) e per gli AAIILL (Accordi Integrativi Locali) le istituzioni che nel passato non hanno preso in considerazione le criticità che attualmente caratterizzano le cure primarie, riusciranno a fare un salto di qualità, dimostrare una discontinuità, prospettare un prodotto di rottura? C’è ancora tempo per agire su alcuni ambiti in attesa di una adeguata riforma.
A questo scopo le Regioni potrebbero condividere con i professionisti azioni innovative anche sperimentali (in particolare le Regioni che hanno firmato il patto per le autonomie) ed è possibile, in questa sede, elencare solo alcune iniziative come parziale esempio di possibili moderni patti-contratti:
- La legge Balduzzi 2012 rimane il riferimento più recente in merito all’organizzazione territoriale della medicina generale
- Abolire il carico burocratico relativo alle attività domiciliari ADI/Cronicità in congruenza con un governo clinico completamente in carico al territorio e ai professionisti che operano in team ( UCCP/ Case della Salute/AFT)
- Valorizzare il ruolo e la funzione dei mmg
- Le strutture logistiche fondamentali in grado di realizzare un sinergismo di risorse e di erogazioni complesse sono le UCCP/Case della salute. L’integrazione in queste strutture dei professionisti mmg deve prevedere un progetto organizzativo innovativo prodotto dagli stessi professionisti. L’appartenenza ad una UCCP/Casa della Salute non è obbligatoria. L’UCCP è parte fondamentale del distretto, è una declinazione aziendale delle strutture organizzative-operative e richiede, come per i distretti, norme legislative nazionali e costi standard
- Le UCCP/Case della Salute in gado di erogare prestazioni complesse, con la presenza di strutture intermedie attive H24 e di Continuità Assistenziale ( definite Grandi) rappresentano le vere e reali alternative ai ricoveri inadeguati e assolvono gli impegni relativi ai programmi nazionali della cronicità e della prevenzione; al contrasto degli accessi impropri al pronto soccorso, al governo delle liste d’attesa e all’appropriatezza
- Una struttura logistica per divenire effettivamente punto di riferimento di una comunità di assistiti della medicina generale territoriale non deve superare un bacino di 30.000 abitanti
- Le AFT sono per definizione funzionali e non possono erogare in modo strutturato prestazioni complesse, restano aree territoriali-geografiche organizzative e funzionali della medicina generale. I professionisti mmg delle AFT, eventualmente non inseriti per scelta nelle UCCP/Case della Salute, possono essere coinvolti in progetti integrati ( UCCP/Casa della Salute/AFT) per erogazioni complesse.
- All’interno della organizzazione territoriale della medicina generale non si devono creare differenziazioni professionali o assistenziali tenendo conto che la soddisfazioni dei bisogni sanitari collegabili alle funzioni della medicina generale richiedono sempre ambiti territoriali contenuti mai superiori ai 30.000 abitanti ( corrispondenti a circa 20 mmg massimalisti). Per non creare differenziazioni professionali e assistenziali ogni AFT dovrebbe avere una sua UCCP di riferimento.
- I fattori di produzione dell’assistenza non devono essere confusi con i fattori di produzione del reddito o con fattori per lo svolgimento ( o acquisto) di attività diagnostiche
- Le società di servizio o le cooperative sociali possono intervenire a sostegno delle aggregazioni ( UCCP/Case della Salute/AFT) per quanto riguarda i fattori di produzione dell’assistenza
- I rappresentanti dei professionisti sono referenti eletti dagli stessi mmg. Il termine coordinatore non appartiene all’ambito della medicina generale territoriale. I referenti hanno funzioni di servizio e sono unici per le aggregazioni complesse e per quelle funzionali dello stesso territorio al fine di favorire l’integrazione tra i mmg dell’UCCP e dell’AFT . I mmg che svolgono attività di consulenza per le aziende non sono rappresentanti dei mmg ma fiduciari aziendali. Il mmg fiduciario aziendale che riveste cariche sindacali può incorrere in conflitto di interessi.
- L’inserimento delle nuove generazioni nella medicina generale convenzionata avviene per graduatoria regionale. E’ possibile ipotizzare diverse vie di accesso alla professione convenzionata rifacendosi sempre alla graduatoria regionale in particolare per le strutture aggregate e in relazione al massimale (zone carenti anticipate attivate in tempo reale con sistemi informatici da mmg ultra sessantacinquenni)
- I debiti formativi possono essere soddisfatti da attività autonome documentate ( attività di team che affrontano temi di appropriatezza, personalizzazione; incontri di briefing; attività di tutor, attività di referente; partecipazione a tavoli professionali ed organizzativi locali, regionali e nazionali; attività di coordinamento del volontariato, docenza di vari ordini e gradi, rappresentanza o ruoli istituzionale …)
- Occorre distinguere tra l’assistenza primaria erogata da una équipe e il lavoro in team e/o in squadra. La caratteristica distintiva specifica e qualificante dell’operabilità della mmg inserita all’interno di una struttura in grado di erogare prestazioni complesse dovrebbe essere quella del lavoro in team e/o di squadra e non in équipe. Il lavoro in équipe si riferisce ad enti o professionalità diverse che operano insieme ( in modo coordinato e gerarchico) per affrontare e risolvere un problema non risolvibile dai singoli componenti o dalle loro funzioni aziendali di partenza (es.: équipe chirurgica).
Il lavoro in team e/o in squadra è orientato ad un progetto e risponde nel suo complesso ad un problema. E’ flessibile e i componenti cambiano in relazione alla domanda. Questo tipo di approccio rappresenta una specificità assistenziale che viene percepita dagli assistiti come personalizzazione della cura: la collaborazione interna al team tra le diverse professionalità è in grado di migliorare i sistemi operativi e le dinamiche collaborative interdisciplinari che possono gestire i cambiamenti, gli apprendimenti, il problem solving e sostenere impegno e motivazione. Il coordinamento non è gerarchico ma diluito e dettato dalla definizione di norme comuni di servizio ( tempo delle risposte, efficienza, precisione, dedizione , passione …).
ll team multiprofessionale, multidisciplinare e multisettoriale (M&M&M) risponde alle esigenze della programmazione assistenziale in quanto attiva il processo della presa in carico degli assistiti occasionali/di opportunità ma soprattutto degli assistiti complessi e fragili attivando l’integrazione con la specialistica, l’infermieristica; l’integrazione H-T e socio sanitaria, il coinvolgimento del farmacista/statistico, la collaborazione con il volontariato, il terzo settore e con le nuove professionalità sanitarie. Il team si avvale di incontri estemporanei di briefing ( incontri brevi, informali, di solito mattutini normalmente in uso nelle imprese che generano prodotti di successo)
- Attività di team e di briefing, di educazione sanitaria, di testimonianza pedagogica verso i corretti stili di vita sono valorizzabili
Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria ( CSPS)
Sindacato dei Medici Italiani (SMI)
Regione Emilia Romagna
(Fine seconda parte, leggi la prima parte e la seconda parte dell’articolo)
20 aprile 2018
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Quale futuro per le cure primarie? (2ª parte)
Articolo a cura di Bruno Agnetti
Pubblicato su Quotidiano Sanità il 18 aprile 2018
L’attività operativa
del medico di famiglia è rimasta sostanzialmente quella antecedente al 1978
(convenzione, libera professione formale di fatto parasubordinato, rapporto
economico a quota capitaria, organizzazione del proprio ambulatorio) e quelli
che vengono pubblicizzati come cambiamenti rappresentano nella realtà
incrementi progressivi impositivi di obblighi contrattuali spesso di natura
burocratica che hanno in gran parte “impiegatizzato” il lavoro del medico
18 APR - Nonostante il diffuso utilizzo del termine “Clinical Governance” non è sempre agevole comprendere in senso univoco il significato del termine inglese. Anche gli “addetti ai lavori ” divergono in merito all’ esatta interpretazione. Per “Clinical Governance” si intende che... il “governo” (nel senso dell’Amministrazione o dell’Autorità Istituzionale, o dei Capi o dei Governanti, o delle Dirigenze Aziendali) riconosce l’autonomia professionale e il ruolo di dirigenza dei professionisti (e questo vale per tutti i professionisti che operano nell’azienda, qualunque sia la loro disciplina) nella gestione dei servizi, in cambio di una piena assunzione di responsabilità nell’uso delle risorse e nel miglioramento della qualità clinica.
Il governo clinico si basa su alcuni principi (valutazione e miglioramento continuo della qualità, autonomia professionale, responsabilità distribuita, rendicontazione e trasparenza, clima organizzativo favorevole, sorveglianza delle condizioni di rischio, monitoraggio delle performance assistenziali, appropriatezza) e su molti strumenti. Esistono comunque nette differenze tra le definizioni istituzionali di governo clinico ( clinical governance) con quello che la letteratura di settore ritiene debba essere considerato un governo clinico affidato effettivamente ai professionisti dell’assistenza territoriale e alle loro integrazioni in team multiprofessionali, multidisciplinari, multisettoriali.
I principi e gli strumenti di un governo clinico affidato effettivamente ai professionisti si discostano dal concetto di clinical governance aziendale in quanto i medici e i professionisti sanitari del territorio sono orientati ad una applicazione delle conoscenze della scienza all’interno di una concezione olistica di salute e di una visione dell’uomo complessa interdipendente secondo un paradigma bio-psico-sociale.
Con l’avvento della cultura manageriale in sanità (legge 502/1992) le logiche aziendali sono state assoggettate a modelli gerarchici monocratici (ampiamente superati da anni nelle imprese private di successo) e hanno ricondotto le categorie aziendali all’interno di una concezione squisitamente giuridica dell’amministrazione con governi (clinici) esercitati da organi apicali nominati dal soggetto politico che non hanno permesso una reale dialettica di rappresentanza degli interessi procurando di fatto una subordinazione della clinica alla gestione.
Le riforme sanitarie attuate dal 1978 ad oggi (833/1978; 502/1992; 229/1999 e la Legge Balduzzi) non sono mai riuscite a creare un prodotto nuovo e di qualità ma sono rimaste inglobate in primis all’interno in un concetto collegato agli interessi e al primato dell’agire amministrativo per poi applicare ai professionisti impegnati in trincea un pensiero sempre un po’ sospettoso e superato di tipo natural-scientifico riduzionista che, inserito nella cultura burocratica-aristocratica, ha mantenuto un modello sostanzialmente ospedalocentrico, specialistico, farmacologico completamente disconnesso dal sistema sociale.
Il salto di qualità ed il prodotto di rottura esige il recupero culturale di una concezione antropologica globale dell’uomo sano e malato contestualizzato nel suo mondo che permette di coniugare il principio del curare, derivante dalla medicina scientifica, con quello del prendersi cura olistico-antropologico-personalizzato.
Prendersi cura significa aiutare l’uomo ammalato ad un empowerment fortemente sostenuto dai sanitari, ove possibile, e incuriosire l’uomo sano ai vari apprendimenti finalizzati al mantenimento dello stato di salute. Il ruolo educativo del medico che opera in un team paritario con altri professionisti della salute acquisisce un ruolo formativo che consente al cittadino di trasformarsi da assistito in soggetto attivo per la gestione della propria salute così che, la condivisione della responsabilità, consente di prendere decisioni all’interno della comunità di appartenenza anche critiche in grado di contrastare effettivamente e produttivamente il tecnicismo estremo, il consumismo sanitario, l’ipermedicalizzazione e la mancanza diffusa del buon senso.
Per questo motivo si avverte in modo pressante la necessità di luoghi dove i professionisti della assistenza territoriale possano ritrovare le radici del loro mestiere (etica, cultura, formazione, deontologia, integrazione ecc.) e al tempo stesso gli assistiti possano diventare protagonisti, con i loro professionisti, dei percorsi preventivi, di educazione sanitaria, di cura, riabilitazione o di recupero delle funzioni residue. Non si tratta di “recinti” o di “ospedaletti” ma di reali strutture (UCCP/Case della Salute) in grado di aggregare per sinergia progetti preventivamente condivisi tra operatori e dove tecnologia e antropologia possano marciare di pari passo per ritrovare il vero senso della clinica e dell’assistenza.
La riforma ter prevede, tra le altre cose, l’aggiornamento obbligatorio (ECM) ma anche in questo caso è necessario un profondo rinnovamento che investa non solo i contenuti ma anche le metodologie che non possono esimersi da una analisi relativa al come si acquisiscono, interpretano e assimilano le informazioni. I professionisti dell’assistenza che operano in team devono poter determinare i propri obiettivi generali e tra questi anche quelli orientati all’ apprendimento. I bisogni informativi non sono uguali per tutti così che deve essere previsto un piano di apprendimento professionale personalizzato che deve essere strutturato in modo autonomo o in team per poter effettivamente produrre cambiamenti positivi nella attività culturale e assistenziale quotidiana.
Oggi la maggior parte delle funzioni assistenziali sono state interamente trasferite al territorio senza che vi sia stata una corrispondenza di investimenti adeguati. A fronte dei profondi mutamenti sociali e sanitari il riordino delle cure primarie è stato semplicemente un fallimento a causa della assenza di interlocutori così che i professionisti della salute non hanno avuto la possibilità di potersi sintonizzare col ritmo dei cambiamenti. Dovrebbe invece essere valorizzata la perizia nella capacità di interpretare la realtà e di immaginare il cambiamento magari partecipando alla sua realizzazione per produrre sevizi che alimentino il bene comune (cultura del progetto, Ezio Manzini, Politiche del quotidiano, Edizioni di Comunità, 2018). Le interminabili latenze che si creano tra una ipotesi progettuale e la sua realizzazione fanno si che eventuali progetti significativi vengano realizzati quando questi sono già ampiamente superati.
L’attività operativa del medico di famiglia è rimasta sostanzialmente quella antecedente al 1978 (convenzione, libera professione formale di fatto parasubordinato, rapporto economico a quota capitaria, organizzazione del proprio ambulatorio) e quelli che vengono pubblicizzati come cambiamenti rappresentano nella realtà incrementi progressivi impositivi di obblighi contrattuali spesso di natura burocratica che hanno in gran parte “impiegatizzato” il lavoro del medico (es.: la compilazione del modulo on line INAIL nella sua laboriosità e ridondanza, dove la componente medico professionale risulta essere residuale è l’emblema di una attività che prima di essere medica va, nella pratica, a sostituire l’attività impiegatizia dei dipendenti INAIL).
Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria ( CSPS)
Sindacato dei Medici Italiani (SMI)
Regione Emilia Romagna
(Fine seconda parte, leggi la prima parte dell'articolo)
18 aprile 2018
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