Gentile Direttore,
il continuo passaggio da una crisi sanitaria all’altra, da un problema all’altro, innesca provvedimenti meramente contingenti quando, a livello territoriale, le cause sono principalmente multifattoriali e non lineari. Alcune testate giornalistiche, incalzando diverse alte dirigenze Ausl sul tema delle liste d’attesa, hanno documentato risposte di DG e DS a dir poco disarmanti e prive della più elementare autocritica. L’ottimismo fuori luogo somiglia molto al pessimismo. L’equazione comporta una comunicazione essenzialmente protocollare, rigidamente richiusa in una prigione formale priva di tempo e di empatia. L’ottimismo/pessimismo non favorisce l’intelletto agente e quindi non genera conoscenza.
I documenti definiti “riforme” (DM77, Case della Comunità, metaprogetti, ecc…) mostrano un ottimismo/pessimismo che difetta di reali innovazioni ed acquisizioni.
L’atteggiamento ottimistico/pessimistico è, di norma, celato dietro lo storytelling commerciale o propagandistico dell’efficientismo che, nella sostanza, non ha mai nulla di importante da raccontare.
Infatti i prodotti, le merci, il consumismo sanitario confezionato dall’alto crea finti bisogni che a loro volta possono generare depressione quando quelle aspettative non dovessero essere soddisfatte. Siamo sicuri che le tanto osannate Case della Comunità spoke rappresentino realmente i bisogni sanitari di assistiti e professionisti territoriali?
La mancanza di azione e l’immobilismo nelle istituzioni impediscono la conoscenza e lo sviluppo di una cultura della complessità relativa al bene comune e l’apparato decisionale si dedica al culto dei dati anche se questi hanno dimostrato di essere inadeguati a descrivere o a prevedere gli eventi.
A fronte di tutto ciò gli assistiti manifestano disorientamento, disincanto, timore, ansia, rancore e financo brutalità. La solidarietà, la fiducia reciproca, il credito verso il SSN, il senso di comunità vengono di colpo cancellate.
C’è proprio un bisogno assoluto ed immediato di speranza.
La speranza è intrinsecamente inserita nel DNA e quindi nel processo evolutivo. Entra, in modo complesso, nei nostri sistemi irriducibili.
La speranza è una dimensione essenziale della nostra anima di esseri viventi razionali. E’ incompatibile con la rassegnazione al male esistente. Sfugge ai calcoli statistici e spinge all’azione proprio per rendere le persone intelligenti e pronte a qualsiasi esito inatteso . Aiuta a superare i disagi e conduce a quella saggezza capace di proteggere la salute, il rapporto fiduciario e la comunità.
La speranza crea soprattutto movimento, attività, disponibilità, assunzione di responsabilità in grado di affrontare problematiche sanitarie territoriali anche non intuitive. Contrariamente le annose iniziative economicistiche o i modelli gestionali esotici di oltreoceano (ora è di tendenza il Brasile), ostinatamente riproposti, non hanno mai risolto nulla, non agiscono, restano ferme a protezione dello status quo e delle rendite di posizione. Alcuni sostengono che quello attuale sia un punto di non ritorno, uno stato di rottura.
Ciò nonostante il contesto sociale non è composto solo da sistemi burocratici amministrativi, alte dirigenze o assessorati regionali ma anche dalla società civile. Ci sono i cittadini/assistiti esigenti e consapevoli, gli anziani della 3 e 4 età sempre più numerosi e in buona salute, i professionisti esperti che operano a contatto con le persone: i bisogni e gli interessi sanitari di questi potrebbero essere molto diversi da quelli dei decisori e, forse, anche una rottura può aiutare le collettività a riappropriarsi delle risolutezze che contano per dare reali vantaggi in salute alla comunità.
Le progettazioni partecipative telecomandate hanno deluso. C’è bisogno di speranza, di bello, di salute, di cultura. Le persone desiderano entrare in maniera diretta, profonda, competente e lucida nei percorsi decisionali che riguardano i loro quartieri.
La trasparenza deve essere un pre-requisito se non si vuole ritornare all’immobilità della retorica partecipativa. Le comunità sono imprescindibili ma sono anche delicate e fragili.
Cambiano di volta in volta a seconda dei territori, della storia, dei valori. E’ inevitabile che ogni collettività possa presentare una non-replicabilità che deriva proprio dalle peculiarità razionali delle persone.
L’errore macroscopico di certe iniziative up-down è quello di aver voluto inglobare, in modo saccente, istanze di cittadini e di professionisti all’interno di griglie precostituite al fine di poterle manipolare a favore di quanto già (in-)deciso a priori.
La non-ripetitività, piuttosto, è un valore prezioso, alimenta la fiducia e la speranza perché sperimenta la ricchezza che deriva dall’innata necessità di scambiare idee ed opinioni. Ragionare, parlare, rendere conto e spiegare può diventare la vera fortuna delle comunità se le competizioni o le occasioni circostanziali non bloccano questo flusso intellettivo. Il PNRR rappresenta un emblematico esempio di circostanza che, nello specifico, ha fatto diventare le Case della Comunità, in poco tempo, un pensiero unico sovraccaricato delle più stupefacenti migliorie per il territorio.
Nel momento in cui la cultura della salute, della conoscenza, della complessità insita nelle piccole comunità periferiche (professionisti e assistiti) si uniscono, nel rispetto delle competenze e nella difesa della loro indipendenza dalle circostanze, allora, in quelle comunità, la cura sarà davvero efficace perché sarà in grado di accogliere il disagio e la malattia indipendentemente dalla possibilità di guarigione e tale processo potrà superare in positivo (sorprendentemente) tutti i più sofisticati piani economicistici (vedi sistemi “governamentalitario” di appropriatezza prescrittiva).
Bruno Agnetti
Centro Studi Programmazione Sanitaria (CSPS) di Comunità Solidale Parma ODV
11 ottobre 2024
© Riproduzione riservata