Il Welfare di Comunità non è di per sé un fenomeno inedito: alcuni autori fanno risalire l’inizio di un modello collaborativo e partecipativo locale addirittura al periodo del Rinascimento Italiano. Oggi l’aspetto che potrebbe apparire come effettivamente innovativo potrebbe corrispondere alle applicazioni delle nuove tecnologie in ambito sanitario, come si è potuto intravedere durante la pandemia, ma le conseguenze sociologiche di tali applicazioni non sempre sono state favorevoli alle comunità e al rafforzamento delle loro relazioni interne.
Quando si sostiene che occorre investire in sanità, una volta superata questa sconvolgente pandemia, ne consegue che finalmente si pensa di considerare i servizi sanitari territoriali talmente importanti da diventare d’ora in poi il denominatore fondamentale per dare il via al nostro nuovo rinascimento sociale, economico e culturale. Peccato che sia stata necessario un evento disastroso come questa pandemia per fare ricredere i fautori della chiusura dei presidi sanitari territoriali perseguita negli ultimi 20 anni, così come nello stesso periodo non si è esitato a ridurre i finanziamenti per il territorio generando preoccupanti differenziazioni professionali e assistenziali. In effetti, avere il primato di Case della Salute nella nostra regione non sempre ha significato aver avuto la necessaria attenzione verso l’equità delle cure ai cittadini e adeguate opportunità ai professionisti.
In ogni caso, a partire da questo evento, occorre avere il coraggio di rigenerare un nuovo rapporto di fiducia tra professionisti e aziende che si è sfilacciato negli ultimi 20 anni e ciò è possibile solo se si compie un’autocritica da parte dei decisori e se si individuano delle personalità che possano svolgere un ruolo di mediazione culturale tra le aziende e gli operatori stessi che sono in questa fase molto sfiduciati.
Riprendendo il discorso iniziale, per poter investire è necessario avere progetti e prima di questi avere idee che possano generare processi decisionali autonomi, innovativi, contestualizzati, ove si realizzi una sussidiarietà circolare che, per sua natura, dovrebbe essere prima di tutto orizzontale piuttosto che verticale.
Le aziende Ausl e Ao sembrano molto concentrate sull’obiettivo della costruzione di un’azienda unica, ma tale processo dovrebbe combinarsi col compito di salvaguardia dell’universalismo, da una parte, e di delega del processo decisionale e dell’operatività sui territori ai professionisti e alle loro comunità, dall’altra.
Lo strumento che potrebbe permettere quel veloce cambio di passo ormai diventato irrinunciabile per essere innovativi nell’assistenza sanitaria territoriale è la sperimentazione. La sperimentazione è normalmente definita nello spazio e nel tempo e può avvalersi, soprattutto in periodi emergenziali o pandemici, di deroghe o normative speciali che possono facilitare l’innovazione affrancandola da alcuni limiti già ampiamente superati dalla rapida evoluzione sociale (basti pensare che l’ACN Accordo Collettivo Nazionale che norma la medicina di base attuale si richiama sostanzialmente ad una regolamentazione del 2005). Concetti già considerati dal dibattito culturale da decine di anni presentati come appena nati, carente creatività, comunicazioni autoreferenziali non aiutano la sperimentazione.
Con l’intento di semplificare ed esemplificare, vorrei elencare, in modo senza dubbio incompleto, alcune situazioni pratiche che richiederebbero percorsi sperimentali più che solleciti:
- può essere giunto il momento di rivedere e riconsiderare i concetti di capillarità e di prossimità nel senso di un potenziamento di questi stessi principi collegandoli all’offerta di servizi e all’orario di fruibilità;
- da questo punto di vista, diventa fondamentale la promozione dell’istituto modulare conosciuto come “Medicina di Gruppo”, prevedendo gruppi costituiti da un numero consistente di medici e personale;
- i gruppi devono potersi scegliere reciprocamente nei loro componenti al fine di realizzare squadre affiatate ed in grado così di produrre iniziative innovative assistenziali;
- le “medicine di gruppo” così costituite possono entrare in concorrenza tra loro per quanto riguarda la qualità del servizio;
- per generare servizi di eccellenza, i professionisti devono poter recuperare un ruolo centrale e autonomo nel processo decisionale così da poter rappresentare reali punti di riferimento per le loro rispettive comunità;
- team e squadre di professionisti efficienti ed efficaci si possono ottenere se si supera il concetto normato dall’ACN del 2005 di “ambito territoriale” rappresentando un territorio oggi superato; l’abolizione di questi feudi agevola la creazione di quel capitale umano e professionale in grado di progettare e innovare l’organizzazione senza desertificare le aree oggetto di assistenza sanitaria;
- la medicina generale territoriale sta vivendo in questi anni un completo viraggio di genere; quasi tutti i medici di base che si diplomano/specializzano in questi anni sono donne che presentano necessità e bisogni organizzativi legati ad una nuova modalità del prendersi cura che differenzia questa professione oggi dalle generazioni precedenti. Questa modificazione sociale, che sta avvenendo proprio sotto i nostri occhi, depone a favore della formazione di medicine di gruppo composte da molti/e professionisti/e;
- l’investimento e la fiducia che questi gruppi devono poter percepire nettamente da parte delle comunità e delle istituzioni si deve manifestare anche con il sostegno economico che, per queste organizzazioni, si realizza con un nuovo sistema incentivante: infatti quello attuale non non incoraggia la progettazione di innovazioni assistenziali, nonostante vi siano schemi e studi che indicano chiaramente quante potrebbero essere le risorse necessarie per ogni singolo componente del team o della squadra.
di Bruno Agnetti
Medico e Consigliere comunale di Parma