Qualche riflessione sulla situazione sanitaria cittadina.

È notizia di qualche giorno fa riguardante un nuovo e inaspettato ricambio al vertice dell’Azienda Ausl della nostra città.

La Direttrice Generale dell’AUSL lascerà Parma e andrà a dirigere l’Ausl di Modena.

Tutta l’alta dirigenza Ausl era stata improvvisamente, (a tutt’oggi ancora inspiegabilmente), completamente rinnovata in piena prima ondata pandemica 2020.

La pandemia ha quindi trovato una nuova Alta Dirigenza che ha dovuto orientarsi nel nostro contesto urbano in piena emergenza e ha avuto la responsabilità di affrontare la problematica quotidiana procurata da questa terribile esperienza.

Oltre alle questioni relative alla questione Covid è stato apertamente confermato anche in alcuni incontri istituzionali che l’obiettivo aziendale principe della nuova dirigenza era quello di addivenire, nel più breve tempo possibile, alla fusione/unione tra le due Aziende Ausl e Azienda Ospedaliera Universitaria.

In verità è da anni che a piccoli passi alcune co-operazioni (es.: uffici amministrativi) erano già state strutturate in senso unitario.

Ora sembra che il progetto, salvo letture personali erronee e con una situazione Covid meno preoccupante, possa procedere in modo più spedito, come da programma regionale.

La finalità è quella di offrire una assistenza sanitaria migliore a tutta la popolazione, che, secondo le alte dirigenze aziendali e l’assessorato regionale, desidera “convintamente” questa non più dilazionabile fusione tra le nostre due più importanti “industrie” cittadine, tra le ultime ad avere la propria sede ancora nel centro storico della città stessa ( circa 7000 dipendenti totali… quasi una Fiat locale).

La letteratura di settore pare esprimere comunque opinioni non omogenee in merito alla impazienza regionale volta alle fusioni più o meno manifeste delle aziende sanitarie regionali.

Alcuni commentatori considerano irrazionale la tendenza verso le mega strutture.

La necessità, per il dopo pandemia, sarebbe piuttosto quella di realizzare piccole realtà collegiali di comunità a misura di vita quotidiana (con le mega istituzioni i cittadini sperimentano quasi tutti i giorni l’impossibilità di riuscire a contattare qualche responsabile autorevole per avere risposte esaurienti che non siano mediate da asettici uffici preposti alla comunicazione con gli utenti quando invece, con estrema puntualità, arrivano bollettini o bollette incontestabili).

In questo periodo inoltre è un fiorire di documenti più o meno ufficiali che si assumono la responsabilità di immaginare, per tutti i cittadini (pare con scarsissimi dibattiti pubblici preliminari), quel che sarà l’organizzazione territoriale assistenziale.

Alcuni noti commentatori si spingono molto oltre “l’orizzonte degli eventi” definendo, in modo sorprendentemente pittoresco, questi documenti come “balle”.

La fosca previsione di certi autori è quella di un sicuro approdo verso la privatizzazione anche a livello dell’Assistenza Primaria (storico primo accesso al Servizio Sanitario Nazionale) e una de-occupazione dei professionisti grazie alla creazione di agenzie di cura fortemente standardizzate e protocollate che seguiranno comunque la falsa riga spesso già indicata delle attuali Aziende Ausl.

Il terreno è già stato preparato dall’estrema caratterizzazione economicistica di questi anni. Sembra inoltre che a nessuno sia balenato nella mente qualche idea innovativa e vivace sui sistemi organizzativi territoriali che potesse far fronte alla rivoluzione, tutt’ora in atto, che sta modificando l’intero sistema della globalizzazione e le inevitabili conseguenze sulla sanità.

Forse è utile ricordare che Parma ha una percentuale di esternalizzazioni o privatizzazioni o accreditamenti sovrapponibili a quelli della Lombardia.

Qualche giorno fa si è tentato di illustrare come il sistema della cura e della prossimità (che è una sua diretta conseguenza) sia una pratica estremamente complessa e non lineare.

La cura è quasi impossibile da realizzare se l’assistenza primaria dovrà dividersi tra attività da svolgere nell’ambulatorio personale del Medico di Base (che potrebbe anche essere definita “Casa della Comunità spoke” cioè piccola) e le 18 ore che dovrebbero essere svolte nella “Casa della Comunità hub” cioè grande.

Per facilitare la vita a professionisti e ad assistiti la logistica potrebbe essere anche a qualche chilometro di distanza dall’ambulatorio del medico. Quindi tutt’altro che “prossima”.

Per tacere degli Ospedali di Comunità che potrebbero anche essere collocati molti chilometri più lontani.

Il solito commentatore un po’ burlone ma competentissimo attribuisce anche a questa soluzione organizzativa territoriale il valore di “balla”.

Un’altra scossa tellurica sembra essere causato dal significato strategico da attribuire alle stesse Case della Comunità dove le Cure Primarie verrebbero caricate più di significato specialistico (come in un poliambulatorio classico) che di Assistenza di Primo Livello più generalista possibile, aperta ad ogni più svariata problematica di cura e di ascolto, strettamente collegata al suo contesto per non dire al suo quartiere o al suo territorio rurale.

Purtroppo nonostante il notevole impegno di numerose organizzazioni della società civile che spontaneamente hanno ricercato strumenti cortesi ed educati per indicare alle istituzioni possibili soluzioni al dramma incombente tramite lo strumento della partecipazione al processo decisionale “dal basso” (l’elaborato del gruppo di Parma coordinato da Marco Ingrosso; la pubblicazione della associazione a carattere nazionale “Prima la comunità”; le varie revisioni del “Libro azzurro” tanto per citare le più note) l’idea della prossimità (e della cura) resta una mistificazione dove il Distretto avrà un banale compito di ripartizione.

Tutto il resto: casa come primo luogo di cura (ma è già così da decina d’anni), Case della Comunità, spoke, hub, reti ecc. restano purtroppo chiacchiere.

Un amico un giorno mi disse che per poter sistemare un po’ le cose sarebbe necessario non avere buone idee o essere illuminati ma raggiungere posizioni dove si possa semplicemente comandare.

Sperando poi che una volta raggiunta quella posizione la persona mantenga quell’equilibrio, quella saggezza, quelle illuminate idee che aveva quando non era nessuno ed era un semplice pensatore che sapeva di non sapere.

Concludendo: si ritorna sempre alla solita questione economica/finanziaria che vince sempre anche sulla cura, sulla sofferenza e sulla vita.

Non serve nemmeno individuare colpe e responsabilità. Bisognerebbe davvero comandare.

La via riformista dovrebbe essere quella umana e fraterna. Ma il riformismo è stato più che umiliato.

Come mai i decisori hanno portato uno dei migliori servizi Sanitari Nazionali al mondo ad una situazione fallimentare, inadeguata, iniqua, sostanzialmente destinata al privato (per salvarsi) e tutto senza quasi ascoltare il parere dei cittadini ? Non sarà che possano esserci similitudini con le oligarchie o le autocrazie o gli oligarchi tanto di moda oggi?

Dio salvi il nostro Sistema Sanitario Nazionale ma trovi anche il modo di rimuovere tanti decisori che pare abbiano perso la bussola.

At’pol essor potent incò, ma arcordot: al temp l’è pu potent ed tì ( da una frase in vernacolo di anonimo).


Bruno Agnetti
Consigliere Comunale

Condividi: