Articolo a cura di Bruno Agnetti

Pubblicato su Quotidiano Sanità il 17 Marzo 2020

medicina di base

17 MAR – Gentile Direttore,
i posti disponibili di terapia intensiva il Italia sono circa 5.000, di contro in Germania sono 28.000 su 80 milioni di abitanti. Eccoci ora di fronte ad un’altra emergenza sociale e sanitaria. Alcuni studi ipotizzano un utilizzo quasi totale, in periodo di picco Covid-19, di letti di terapia intensiva nel nostro paese. Come ex anestesista-rianimatore mi sento emotivamente immedesimato e profondamente commosso da quanto i colleghi ospedalieri stanno vivendo.
 
A fronte di tragedie, disastri, epidemie/pandemie pregresse anche la medicina generale ha tentato di studiare strategie orientate al potenziamento del 1° livello assistenziale territoriale al fine di svolgere un effettivo filtro per le strutture di 2° livello e impedire gli intasamenti di questi servizi che vengono indicati in questo momento come la vera emergenza.
 
Un territorio ben attrezzato e rafforzato con i nuovi giovani mmg, preparatissimi dal punto di vista clinico-diagnostico, già inseriti nelle graduatorie regionali per la medicina generale e per la Continuità Assistenziale, adeguatamente addestrati avrebbe potuto/potrebbe far fronte in tempo reale all’emergenza in affiancamento ai mmg senior per visite a persone sospette di contagio, per eseguire tamponi, per seguire a domicilio i paucisintomatici o i così detti “stabilizzati” dimessi dalle terapie post-intensive, per somministrare eventuali terapie domiciliari innovative o per uso compassionevole pur continuando la quotidianità e l’assistenza territoriale a tutte le altre persone ammalate non di Covid-19.  
In cambio di questo importantissimo servizio alla comunità sarebbe però necessario proporre ai giovani medici non solo una valorizzazione adatta ed incrementale della loro attività ma l’assicurazione di una strutturazione, pur sperimentale, dello strumento “affiancamento” e l’ideazione concreta di un sistema di reciprocazione che possa garantire ai giovani medici strutture territoriali adeguate, moderne e funzionali dove i professionisti possano elaborare, in autonomia e indipendenza, progetti assistenziali innovativi e flessibili in grado di rispondere anche a momenti emergenziali. 
 
La pandemia ci impone un cambio di passo e castiga ogni risposta alle nuove esigenze globali (COVID-19 e non COVID-19) attuate con modalità o culture arretrate e protocollari/normative. 

In questi giorni abbiamo avuto l’esempio emblematico di come i protocolli e le linee guida si modifichino di giorno in giorno a conferma del principio che il paradigma di riferimento è inevitabilmente bio-psico-sociale e che i macro fenomeni endemici strettamente collegati alla vita degli individui sono in grado di sovvertire algoritmi, protocolli, LG fino a ieri considerate verità immutabili. 
 
La situazione attuale (non solo della Lombardia che per altro rappresenta un servizio di 2° livello eccellente) è una rappresentazione di quello che significa non essere stati in grado di riformare le cure primarie partendo da pilastri fondamentali validi per un paese come l’Italia. 
 
Inoltre appare ora come sia stato dissennato ed insidioso il percorso che ha portato a chiudere un’infinità di ospedali della variegata periferia italiana per trasformare il servizio sanitario in qualcosa che avesse efficienza manageriale ed ottimizzazione ma che poi alla fine ha voluto a tutti i costi semplificare in un pensiero unico la complessità della vita reale. 
 
Le tematiche e le argomentazioni relative ai piccoli ospedali sono applicabili e completamente sovrapponibili alla medicina generale. Gli obiettivi aziendali sono ogni anno raggiunti ma qualunque forma di governo o gestione piramidale, lontano dalla realtà, dai bisogni e dai professionisti potrà certo imporre programmi o obiettivi ma non riuscirà mai a comporre (cum ponere) progetti solidi e trasmissibili. 
 
La relazione stretta tra professionisti e assistiti, esaltata da questa crisi, genera spontaneamente comportamenti collaborativi istintivi e responsabili, trova soluzioni efficaci, recupera la “calma” necessaria tra persone che si riconoscono e rispettano ciascuno con le proprie specifiche funzioni, doveri e diritti. 
 
Quanta pietà scorre nelle vene dei professionisti e dei parenti quando, per ragioni di sicurezza, non c’è più la possibilità di visitare i propri cari ricoverati nemmeno in caso di dipartenza. Ora abbiamo bisogno di senso.
 
Certe calamità superano gli individui e governanti. Il clamore finirà. La società civile saprà allora imporre un nuovo welfare sanitario che ponga il bene comune come valore superiore? 
 
Bruno Agnetti
CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)
FISMU (Federazione Italiana Sindacale dei Medici Uniti )
Regione Emilia-Romagna


17 marzo 2020
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