declino cure primarie

Il lento ed inesorabile declino delle Cure Primarie

Articolo a cura di Bruno Agnetti

Pubblicato su Quotidiano Sanità il 6 febbraio 2017

declino cure primarie

06 FEB - Gentile Direttore,
l’ultimo intervento di Ivan Cavicchi su QS del 27 gennaio  riporta una lievequasiimprecazione (… ma per quale diavolo di motivo … nulla che non produca conseguenze distruttive … regolarmente le peggiori). Risulta arduo non poter raccogliere lo spunto per la riflessione  che  proviene da un autorevole studioso della materia come è il Prof. Cavicchi.

Se anche  il Prof. Cavicchi  viene  scarsamente ascoltato  si conferma ancor più  fortemente il concetto (sperimentato in questi tribolati anni  di trattative romane e di  turbinanti  iniziative in libera uscita di regioni ed aziende) che sostiene    come  le elaborazioni  propositive  presentate   dai professionisti operanti  in  prima linea per quanto riguarda  ciò  che viene definito “riordino delle cure primarie”  restino  solo esercizi  letterari (Cavicchi : Il riformista che non c’è,  2013)  tra   quei  pochi colleghi che non hanno completamente abbandonato un atteggiamento positivo e con fatica cercano di valicare bandiere e tifoserie.  Intanto l’impero romano sta crollando senza nemmeno uno scricchiolio di avvertimento.

La nuova delibera della Lombardia in merito alle patologie croniche non è una sorpresa  ed era  ampiamente prevedibile prima  perché l’esternalizzazione, la privatizzazione ed il sistema degli accreditamenti  (inesistente nella medicina generale per la sua  residua componente libera professionale convenzionata)  è iniziato tanti anni fa  con i gruppi  dedicati alle cure palliative  (esperienza  che pare  non  aver prodotto particolari ripensamenti   ai professionisti delle Cure Primarie),  poi è continuata  con i CreG  anch’essi con budget   a provider ed  infine eccoci con l’affidamento  dell’assistenza  della  cronicità a gestori sanitari. 

Che dire?  Negli anni gran parte delle  stagioni  contrattuali  sindacali   si è spesso  basata  sulla ricerca di  benefit  (e non raramente business per pochi) piuttosto che puntare su una assoluta e condivisa  valorizzazione della professionalità diffusa  ( giustamente da gratificare ).  Ciò che avviene in Lombardia sta avvenendo in altre regioni con la diversità che non sempre,  questo passaggio tra welfare state  ad  altro welfare,  è immediatamente intellegibile  ai  più (es.: a Bologna ci sono più  Guardie  Medica privata che  evidentemente, per legge di mercato, soddisfano un bisogno. Vedi web).

Come dice Pina Onotri (Segretaria Nazionale SMI  su QS,  31 gennaio 2017)  sarebbe necessario un fronte comune, senza unanimismi di facciata,  in difesa del servizio pubblico … a meno che non sia però  troppo tardi e ilcountdown  sia inarrestabile  visto  comunque le tiepide reazioni  possibiliste all’iniziativa Lombarda  dichiarate dai  rappresentanti di alcune sigle sindacali. 
Come già altri colleghi hanno ricordato l’attuale organizzazione sanitaria comprende una attività assistenziale-erogativa  e una  amministrativa-gestionale-organizzativa-di controllo.  Le due aree  presentano diversità  di origine e  di  fondamenta: una arcaica e  plurisecolare, l’altra recente e collegata ad esigenze politiche-burocratiche-amministrative.  

Nel passato la parte  burocratica-amministrativa  si è dimostrata più  dimensionata  a fronte di una componente assistenziale forte. Attualmente la situazione si è ribaltata a favore di una  strutturazione aziendale  gerarchica, una burocrazia amministrativa  molto forte ed in grado di schiacciare e livellare ogni altra forma di pensiero che non sia unico.

Quindi queste  due aree hanno  consistenze numeriche e decisionali-politiche completamente sbilanciate  con interessi ed obiettivi non coincidenti.  La maggioranza dei mmg attualmente impegnati a garantire  la sostenibilità  dell’assistenza (dimissioni sempre più complesse con equilibri precari ed impossibilità di trovare soluzioni adeguate) è soggetta ad una frenetica iperattività ed iper-occupazione che supera di molto le 12 ore giornaliere tanto da poter ipotizzare due strade:  
A - il passaggio alla dipendenza di tutto il comparto dell’assistenza primaria;  
B - in alternativa occorre marciare  verso una convinta accettazione dell’autonomia e della libera professione dell’assistenza primaria sostenuta a sua volta  da una reale valenza politica.

Le istituzioni forse sceglierebbero l’opzione A ma non sembrano attualmente più in grado di sostenere il costo dell’operazione anche se perseguono tenacemente  con normative e delibere la finalità della parasubordinata spinta e soffocante. Nello stesso tempo non riescono a garantire un welfare state storico perché la globalizzazione e le modifiche socio-assitenziali  hanno portato ad un incremento esponenziale di nuovi bisogni ostentati dai clienti esterni.

In numerose  occasioni  è stata data la possibilità, su questo stesso quotidiano, al nostro Centro Studi  ma anche a tanti altri  professionisti,  di presentare  le  analisi critiche relative  ai  testi dei documenti nazionali e regionali/locali che argomentavano di Cure Primarie così come è stato acconsentito di elencare  contributi  e proposte costruttive al fine di sanare eventuali defaillance nella convinzione che l’interesse verso il bene comune non fosse definitivamente  esaurito e  lo strumento  del confronto potesse tutelare l’interesse professionale di molti (assistiti e medici)  senza rischiare di incunearsi in posizioni di rendita per pochi.   

Ciò nonostante  i  processi decisionali  sono afflitti  da pregiudiziali  tali  che  da anni  vengono riproposte soluzioni di tecnicismo esasperato  ed   inconfutabile ed in questi casi la rappresentatività resta di facciata. Questo sistema inoltre oltre tende  a  contrastare  ogni evidenza  statistica dove le competenze per stabilire le   “ragioni e i  torti” non  dovrebbero mai  appartenere ad una sola delle  parti. 

Non è questa  l’occasione di fare un elenco (lungo)  di proposte  argomentate  a favore di un riordino delle cure primarie già presentate più volte. Desta non poca meraviglia  però non poter più ritrovare, nei  numerosi documenti  nazionali e  regionali/locali, richiami introduttivi  alle caratteristiche e alle competenze valoriali della medicina generale enunciate dalla prestigiosa World Organization of National Colleges and  Academics (Wonca) sostituite, a sostegno delle scelte di politica sanitaria,   da  altre numerose  citazioni autoreferenziali  o di relativo  impatto effettivo culturale /scientifico assistenziale  (es.:  DG SANCO 2014) con il conseguente impoverimento  della credibilità dei documenti stessi.

Le istituzioni  sembrano comunque  aver esaurito la spinta propulsiva  per rivoluzionare la sanità nonostante  il poderoso apporto culturale accademico e  delle  agenzie.  In questa situazione diventa difficoltoso  attivare una  fase di ripensamento del welfare nel quale sia possibile, grazie al ruolo essenziale dei professionisti,  coniugare rigore,  universalismo e   scelte prioritarie   riportando  al centro  del dibattito culturale e politico la sanità come unico luogo in cui si sostanziano uguaglianza  dei cittadini e  principio di solidarietà. 

Dopo la riforma del 1978  si è esaurita la stagione dei dividendi  derivati dagli anni del boom economico  dove nel nostro paese gli imprenditori (anche con la terza elementare) superavano di gran lunga i dirigenti e il Pil correva a doppia cifra come quello cinese attuale. Ora ci sono molti più dirigenti che imprenditori (un mmg è un piccolo imprenditore ). Le difficoltà crescenti per coniugare il buon governo con i bisogni reali delle persone diviene addirittura oggetto di studio da parte delle neuroscienze (Il Sole24Ore,15 gennaio 2017). Nel complesso la Sanità Italiana è passata al 22° posto (Indagine dell’Health Consumer Powerhouse 2016 che valuta la soddisfazione  dei cittadini) su 35 paesi europei analizzati.

Eppure una organizzazione adeguata della sanità (con i suoi  determinanti di salute)   potrebbe essere un  solido fattore di sviluppo economico come dimostrato da numerose pregresse argomentazioni dove si richiama l’attenzione al rispetto delle  comunità reali. Oggi è un po’ di tendenza parlare di comunità  proprio perché le istituzioni si sono accorte che da sole non sono più in grado di affrontare i grossi capitoli  dell’assistenza territoriale. Ancora una volta però, a causa di un ritardo culturale incredibile, i centri decisionali non si sono accorti che le comunità non esistono più.  

Per dire più correttamente esistono residui di comunità  intorno alle massime istituzioni morali dei nostri territori (parrocchie)  e anche il mmg rappresenta, in molte realtà,  un punto di riferimento fondamentale. Le comunità non si creano con i finanziamenti o le sovvenzioni. Le persone desiderano autonomamente e fortemente partecipare  in modo reale e non virtuale.  Il MMG e le cure primarie  sono rimaste  effettivamente  forse  tra i pochi  punti  di riferimento delle comunità/società locali  che (anche se fortemente in crisi) grazie all’azione  di empowerment dei mmg   mostrano di poter  esercitare un  protagonismo crescente per far fronte  all’incrementi dei bisogni socio-assistenziale a cui le istituzioni non  riescono più a dare rispose. Inoltre   la personalizzazione delel cure   che solo  il medico di base   è in grado di assicurare   è  considerata   dai pazienti   criterio di valutazione della qualità assistenziale.

L’impegno economico consistente e necessario  sul medio periodo  per il riordino delle  cure primarie  resta   un investimento non un costo ma c’è la necessità di uscire  da sfere molto ampie per comunicare competenze ed abilità in modo raccolto (walled garden cioè giardino contenuto:  Colletti, Il Sole24Ore, 5 febbraio 2017). Potrebbe non essere coerente con i bisogni ipotizzare quindi ambiti territoriali che superino i 30.000 abitanti. Da questo punto di vista  occorre  individuare  con chiarezza   strutture  logistiche  all’interno dell’ambito territoriale geografico  contenuto  (mai più di  30.000 assistiti/popolazione/presenti)  identificabili  indiscutibilmente come  declinazione del distretto. La presenza  stanziale dei mmg  è fondamentale per offrire integrazione e gestione della  complessità.  

L’adesione  e la partecipazione  dei mmg che desiderano  affrontare questa esperienza  devono essere volontarie e devono comunque garantire  equità anche per coloro che desiderano  garantire  una capillarità territoriale continuando ad operare negli ambulatori singoli pernon creare differenziazioni tra professionisti e di conseguenza  diversità  tra potenzialità assistenziali territoriali.

Bruno Agnetti
Centro Studi  Programmazione Sanitaria CSPS
Sindacato dei Medici Italiani  (SMI)
Regione Emilia-Romagna

06 febbraio 2017
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